INTERVISTA A "RONY" (EUCEBIO FIGUEROA) ex CAPITANO GUERRIGLIERO DELLE FAR, E PRESIDENTE DELLA COOPERATIVA AGRICOLA INTEGRALE "NUEVO HORIZONTE".
L’intervista di "Rony" –un capitano guerrigliero di origine contadina che ha militato nelle Forze Armate Ribelli operanti nel Petén- ha un valore paradigmatico in relazione agli obiettivi assunti dal documentario. Per questo la riportiamo integralmente e quasi letteralmente come si può leggere dal tono "parlato" che si è mantenuto dalla registrazione.
"Rony" –così continua oggi ad essere chiamato dai suoi amici e compagni di lavoro- ha attualmente 38 anni ed è presidente della Cooperativa Agricola Integrale "Nuevo Horizonte", la cui storia riportiamo in Appendice 1 essendo anch’essa indicativa di come siano stati concretamente disattesi gli Accordi di Pace.
La Cooperativa si trova ubicata vicino al piccolo villaggio di Santa Ana Vieja, nel Petén.
I suoi soci – donne ed uomini con i quali viene proposta per la prossima estate un’esperienza comune di scambio e di lavoro che vogliamo rendere pubblica anche attraverso questo spazio (vedi Appendice 2)- sono quasi tutti ex guerriglieri delle FAR.
Per l’intervista, "Rony", ha chiesto che questa si realizzasse attraverso la lettura di suoi appunti; cosa che è stata accettata. Aveva iniziato a scriverli quando ancora era nella guerriglia ma, a tutt’oggi, aspettano di essere terminati. Nella misura in cui "Rony" avanzava nella lettura, egli veniva a trovarsi sempre più coinvolto dai ricordi; è così che ad un certo punto ha gettato via il quaderno ed ha continuato a parlare senza consultare nulla. La sua intervista è praticamente una sintetica autobiografia: inizia dal suo coinvolgimento nella lotta armata, quando aveva 14 anni, per arrivare all’attualità (agosto 2002).
· UN BAMBINO GUATEMALTECO APPRENDE COSA È LA DOTTRINA DI SICUREZZA NAZIONALE.
Mi ricordo bene quel giorno del mese di marzo. Alla mattina presto, allo spuntare del sole stavo accarezzando le foglie di "zapote" con le quali preparavo dei mazzetti per metterli nel vaso da fiori. Era il 1978 e stavo frequentando la quarta classe.
In quel tempo, come qualunque altro bambino del mondo, correvo, trottavo da tutti le parti; pieno di illusioni e senza protestare per i miei piedi scalzi che mai avevano conosciuto un paio di scarpe e per la mia pelle quasi nuda che non sentiva però vergogna di quella povertà.
Di diverso, rispetto ad altre situazioni dove vivevano altri bambini come me, c’erano però certi racconti che ascoltavo pur senza capire, le visioni di morti abbandonati sui cigli dei viottoli quando uscivamo all’alba e c’era il tono delle avvertenze di mia madre:
"Ricordati che appena esci di casa devi andare diritto a scuola ed appena finisci le lezioni devi ritornare subito a casa. Bambino a letto non corre pericolo!"
Io non capivo perché mia madre non ci permetteva di uscire nel pomeriggio con i nostri amichetti … e non parliamo poi quando faceva scuro. Mi ricordo ancora come ella chiudesse la porta appena notte, spengesse la vecchia lampada a petrolio e ci chiedesse di restare in silenzio. E c’era da parte nostra sempre la solita domanda alla quale lei non rispondeva: "Mamma perché Tarzan e la Solfa abbaiano? Perché picchiate i cani per farli stare zitti? Chi ci sarà?"
La mamma solo diceva:
"Dormite perché domani dobbiamo svegliarci all’alba"
Mi ricordo che mia madre ed i miei fratelli più grandi parlavano sempre tra loro, da soli. Quando arrivavamo noi, i più piccoli, essi cessavano di parlare. Quando chiedevamo del babbo la bugia di sempre:
"Vostro padre è malato e si trova in ospedale, a Città del Guatemala".
Però non andavamo mai a trovarlo ed il peggio era che sempre c’era qualcuno che mi domandava del babbo quando ero nella strada che ci portava a scuola.
E fu in quel giorno di marzo, nella notte di quel giorno che mai dimenticherò, che scoprii che il mio babbo stava in casa e che si nascondeva da tutti, anche da noi piccoli. Che razza di spavento presi quando, scendendo improvvisamente dal graticcio, lo vidi.
Era il 1978, un anno decisivo per la mia vita.
"Figlio mio, per amor di dio, non dire a nessuno che oggi hai visto il tuo babbo…gente cattiva lo vuole uccidere!" E perché? "Perché lui è buono, perché aiuta i poveri, perché divide il cibo con quelli che non lo hanno, perché egli aiuta a difendere la gente … Nella notte, quando latrano i cani, vi dico di stare tutti zitti perché fuori ci sono degli uomini che vengono a tentare di individuarlo per ucciderlo… per questo spengo la luce, per questo il tuo babbo ormai non può stare con noi…dobbiamo proteggerlo…e perciò non raccontare nulla neppure ai tuoi fratellini più piccoli!"
Così, come è accaduto quasi ad ogni buon rivoluzionario, mio babbo fu il maggiore motivo che mi spinse a lottare, ad educarmi nella cospirazione e nel dolore. Nonostante fossi un bambino, senza capire assolutamente nulla, giurai di essere il suo alleato, il suo protettore e mai raccontai ai miei fratelli che quella notte avevo visto mio padre, il quale mi aveva abbracciato e mi aveva detto:
"Come stai birbante? Tra poco tempo ci vedremo spesso…ti chiamerò in un certo luogo e così parleremo. Ma ora" –concluse accarezzandomi la testa- " a dormire!".
Credo che non piansi, sono sicuro che non piansi…ma tuttavia ancora oggi questo ricordo mi commuove e gli occhi mi tradiscono. Rimane però ferma la mia mano, ugualmente ai miei ideali ed alla mia dedizione. Quella notte, molto ma molto tardi mi addormentai. La mattina seguente fu forte l’impatto nel vedere il viso di mia madre nel quale, solo ora, potevo leggere lo sforzo di nascondere il dolore. Ma anche grande era in me la gioia e l’orgoglio di aver abbracciato il babbo senza che nessuno, all’infuori di lei e di me, se ne fosse reso conto.
Nuovamente il sole con i suoi raggi potenti svegliava la fertilità della madre terra, avvolta nella rugiada della mattina come se fosse il fumo di mille sigarette.
Ma per me quella era un alba diversa. Il mio cuore e la mia fanciullezza, che appena ieri erano mie, mi scappavano. Ormai non potevo più vedere il mondo come qualcosa di pulito, un paradiso fatto per noi…anche l’accettazione di me stesso, la mia presenza nella casa, mi era difficile. Oggi, con maggior chiarezza, posso dire che iniziai a formarmi un’idea, a percepire un mondo dove esisteva un mostro che però non sapevo identificare esattamente. Questo mostro era il "cattivo", il "Lacandón". I morti che giornalmente apparivano ci avvertivano, con le loro mutilazioni, che dalle nostre parti era presente "Lacandón" che mangiava i testicoli degli uomini e tagliava i seni delle donne. E che dunque era certo che non si poteva assolutamente uscire di notte. Quel giorno, camminando verso la scuola saluto don Candelario Rodríguez, un vecchietto che tutti rispettavamo, un nostro vicino, e gli chiedo un centesimo di dolcetti. Lui mi domanda come sta la mamma. Bene, gli rispondo.
"Digli che la sua madrina vuole parlarle" mi dice.
Dio mio, pensai, la madrina ha detto che anche suo marito è in ospedale. Il mio cervellino incomincia a funzionare e penso e faccio una verifica di quante donne ci sono nel villaggio che hanno il marito fuori casa e che sempre si visitano l’una con l’altra.
Il maestro mi ammonisce per la distrazione e mi toglie la ricreazione, ma il mio pensiero resta molto lontano. Le grida di allegria, i rimbalzi del pallone nel campo da gioco sono suoni lontani e fluttuanti nello spazio. La mia aula guarda diritto alle montagne del nordest e penso che posso chiedere agli amici di mio fratello maggiore, che sono grandi, se possono aiutare il mio babbo. Penso anche a don Benito Corado che è un commissionato militare ed a mio cugino, che è un kaibil, come possibili aiuti per il babbo.
La mia innocenza mi stava portando pericolosamente lontano. In realtà don Benito Corado era il capo della "Mano Bianca" e lui ed i suoi camerati erano quelli che sequestravano, torturavano ed uccidevano i contadini. Erano questi tipi, assieme a quelli della G2, che di notte si trasformavano in tanti "Lacandón". Erano loro che asportavano pezzi di pelle, unghie, dita, lingua ai contadini perché parlassero. Ma come poteva la mia innocenza identificare questi criminali?
Il mio rendimento scolastico peggiorava ogni giorno di più, i miei voti scendevano costantemente. Vivevo come in attesa e, finalmente, questa attesa terminò. La mia mamma mi preparò una borsa ponendovi biancheria, cibo ed una coperta.
"Andiamo" -mi disse mio fratello maggiore- "prendiamo subito la salita ".
Erano le famose alture che alcuni chiamavano anche Brezze del Cinghiale. Fu un viaggio emozionante. Quando ci trovavamo sulla cima più alta della montagna si vedeva in basso tutta la pianura dove era il mio villaggio; avevo un grande desiderio di condividere con i miei amici questi momenti. Dopo alcune ore arrivammo in un posto bellissimo; una dolce sorgente di acqua cristallina abitata da granchi e da differenti specie di pesciolini che facevano venire appetito. All’improvviso vedo apparire mio padre, sorridente ed ancora più robusto di come mai l’avevo visto, che mi domanda:
"Come sta la tua mamma?" Molto bene!
"E gli altri ragazzi?" Molto bene!
Era l’unica cosa che ero riuscito a spiccicare. Mi disse di aspettare. Lui e mio fratello si allontanarono un po’ e si misero a parlare. Di cosa, non sapevo. Solo capivo dall’espressione dei loro visi che la discussione era seria. Accomodati in una piccola casa, aspettammo l’arrivo di un gruppo di uomini. Quando essi giunsero erano di buon umore; alcuni di età matura ed altri sommamente giovani. Questo fu il mio primo incontro con la guerriglia. Tutti erano armati con armi corte e fucile da caccia. Incomincia così il cammino che segnò la mia vita e contemporaneamente iniziano a sorgere un gran numero di contraddizioni del tipo: Come è che dio non esiste se la mia nonna prega tutte le notti? Come è che l’esercito è cattivo se lì ci sono i miei cugini e mio fratello maggiore tutti i sabati e le domeniche si presenta nei riservisti con la sua uniforme militare?
Inizia tutta una rivoluzione nella mia testa, ma senza dubbio quella "scuola" di cinque giorni, con quegli uomini che già salutavamo come "compas", andava ogni giorno segnando e imprimendo in me una vera motivazione per la lotta.
Ritornando a casa mi sentivo forte come Tarzan, desideravo raccontare tutta la mia esperienza, desideravo che i miei amici ed i miei fratelli lo sapessero. Però nulla di tutto ciò era possibile; ero già un cospiratore e principiavo ad identificare alcuni nemici. Quando li incontravo mi era difficile contenere la rabbia ed l’indignazione. Finalmente ero definitivamente convinto del pericolo di uscire di notte, così come capivo perfettamente cosa significava "stare in ospedale a Città del Guatemala", e il latrare dei cani in tutte le vie del villaggio. E cominciava ad essermi sempre più chiaro che i vari "Lacandón" erano purtroppo belve umane uscite dall’inferno, il peggiore dei mali.
Mamma non sono passato, ho perso l’anno!
"Fannullone" -fu la risposta di mia madre- " te lo sei voluto, quest’altro anno non andrai a scuola".
· L’ADESIONE ALLE FORZE ARMATE RIBELLI.
Io mi coinvolgo sempre più nel movimento rivoluzionario e conseguentemente i compagni cominciano a darmi un certo livello di fiducia; alto se si pensa alla mia età. Per un certo tempo dovrò abbandonare il mio villaggio. Vado in montagna provando un fortissimo sentimento di nostalgia. Addio scuola, calcio, amici e amiche. Ricordo bene come misi da parte le mie biglie e le mie trottole pensando ingenuamente che sarei ritornato a giocare con esse. Mia madre aveva un baule di "caoba" ben fatto; i miei pochi vestiti andarono a finire lì dentro, dato che il baule era la nostra cassaforte.
Quelli che pensavo sarebbero stati i miei "grandi compiti" altro non furono che un processo di addestramento, tanto nella cospirazione, che nella difesa personale, che nei rudimenti militari. Le pratiche cospirative mi sembrarono le più interessanti: l’infiltrazione, la penetrazione nel campo avversario, i metodi per analizzare le informazioni e le forme di occultarle. Uno dei grandi compiti che realizzai, forse senza comprenderlo pienamente, però con molto entusiasmo, fu esattamente quello relativo al signor Benito Corado. Dovevo costruire una scheda esatta dei suoi spostamenti giornalieri su chi e come lo accompagnava. Un giorno il signor Corado fu giustiziato in un agguato e i franchi tiratori furono così precisi che non fecero il minimo danno né alla gente che gli stava vicino né al suo nipotino che gli camminava appiccicato. Così questo criminale cessò di vivere anche se ciò non ripagò gli enormi danni da lui fatti: le decine di contadini innocenti torturati ed assassinati. Mai ho saputo chi furono i giustizieri e tanto meno se le informazioni dei miei cinque mesi di vigilanza erano servite a qualcosa o no. Un altro dei miei "grandi compiti" era di garantire la sicurezza operativa degli incontri sentimentali. Per quanto ciò posso far sorridere, considero che questo fu uno dei più bei compiti che realizzai durante la mia infanzia anche se non ne avevo la piena coscienza. Io avevo l’incarico di portare le mogli dei compagni dove loro si trovavano, gliele consegnavo ed aspettavo per 8 ore dopo le quali le riprendevo sotto la mia responsabilità e così le riportavo alle loro case con tutte le misure di sicurezza. Dopo assunsi il compito di "postino", un’altra grande impresa per la mia età. In quei tempi l’esercito, ai posti di blocco, non prestava ancora attenzione ai bambini e così potevo portare il mio carico nei villaggi. I compagni lo prendevano e me ne consegnavano un altro da portare in altri luoghi. Mi ricordo bene che viaggiavo con ceste piene di tamales o di frutta, nelle quali nascondevano i messaggi; al ritorno le stesse ceste erano colme di regali, pasta, etc. .. ma sempre piene di messaggi nascosti. Tutta questa vita fu accompagnata da intensi studi, dalla frequenza continua di scuole di formazione teoriche e pratiche. Le differenti "lezioni" erano impartiti da compagni che avevano alle spalle una storia riconosciuta. Ho poi saputo che uno è stato il comandante "Mena", un altro il comandante "Herbert", poi "Juanito", "H3", "Leonón", "Tavarich". Quest’ultimo era un compagno indigeno molto dinamico, però era difficile comunicare con lui.
Mi piacevano gli esercizi fisici, la lotta personale, il pugilato. I temi che mi appassionavano erano la partecipazione della donna nella lotta, la costruzione del socialismo. C’era una mistica forte. Ricordo bene come i compagni ci spiegavano che non dovevamo entrare in case di tolleranza, per principio, e ci spiegavano come le prostitute erano sfruttate e discriminate come un qualunque altro lavoratore. Le discussioni erano così approfondite che ancora oggi, all’età di 38 anni, i concetti ed i principi che allora assumevamo restano per me un riferimento e una guida.
Il campo di addestramento militare era pieno di ostacoli e di regole.
"Sei morto!" -mi gridavano- "Abbassa di più il capo e i talloni, porta meglio il fucile, non battere le spalle nei fili". "Bravo ragazzo" –mi diceva "H3"- "sei la nostra mascotte".
Alla mia età ero già membro di una cellula militare (così la chiamavamo). Oggi capisco perché quasi sempre mi presentavano alle riunioni clandestine di reclutamento: la mia piccola età e la mia piccola statura impressionavano positivamente i simpatizzanti, causavo ammirazione e conseguentemente li motivavo ad entrare nella lotta.
Nel 1979 ho avvertito con forza il significato d’internazionalismo e ho insistito, c’era una campagna di reclutamento, per essere mandato a Cuba dove si formava un primo contingente per appoggiare i compagni del Nicaragua. Per quanto pregassi mio babbo e gli altri comandanti, la risposta era:
"Sei troppo piccolo, non hai né il fisico né l’età".
Maledicendo il fatto che non crescevo, l’unico modo che mi restò per essere solidario con il Nicaragua fu dare un biglietto da 10 Quetzal, l’unico che avevamo in famiglia; ci dettero, come ricevuta, 2 fogli rossi e neri con le lettere del fronte sandinista: "FSNL". E su ciascuno di essi era scritto "Vale per 5 Quetzal"
Accade che quasi tutti vanno via dal campo. Anche le famiglie dei guerriglieri più conosciuti vengono spostate in altri luoghi. Si decide di installare nella famosa zona U3 -un’area "coperta", ovvero semilegale- un centro di smistamento e di produzione. Di quest’ultimo sono nominato segretario ed assumo pure la responsabilità di coordinatore della produzione e della commercializzazione.
Dio mio, se per caso esiste, come farò! Pensai sotto l’evidente influenza dei residui della formazione ricevuta. Ma ci fu poco tempo per preoccuparsi. Inizia l’organizzazione del collettivo che è formato da sole donne e tra loro mia madre. Si trattava di garantire, concretamente, l’accoglienza dei differenti guerriglieri che transitavano dall’U3, mantenere l’unità del collettivo, dargli vita politica e garantire il cibo per alcune famiglie di guerriglieri che si trovavano già nella montagna.
Qui inizia il vero lavoro organizzativo. Montammo un progetto per raccogliere mais, fagioli, sementi vari; un altro per alberi da frutto, soprattutto platano e banano; un altro ancora per allevamento di galline creole che dette ottimi risultati ed infine un allevamento di maiali nella cui realizzazione mia madre e mia zia Julia ebbero un ruolo particolarmente importante. Furono progetti di grande impegno e ottenemmo una superproduzione.
Ma dove si ottennero risultati eccezionali fu nel montaggio di una rete di informazione. Certo l’aver giustiziato Benito Corado ed altri commissionati militari ci dette tempo e spazio per realizzare la suddetta rete. Oggi, però, riflettendo e ricordando tutti gli errori fatti relativamente alle misure di sicurezza adottate, mi domando: "Come è che siamo ancora vivi?" L’esercito era davvero così stupido o semplicemente stava aspettando il momento giusto per spazzarci via in una sola volta?
Ricordo bene lo stato d’animo con il quale iniziai questo difficile compito. Mi aiutava molto, in questo, il sapere la grande capacità delle donne, come in effetti ha dimostrato quel pugno di eroiche lottatrici, autentiche rivoluzionarie. Esse, come me, non capivano né la totalità né la dimensione di ciò che avevamo iniziato, però avevamo piena coscienza della lotta per la democrazia nel nostro paese. Grandi furono i sacrifici per garantire le "vittorie" quotidiane.
La nostra struttura di lavoro si rafforzò a tal punto che la base militare di Poptún fu uno dei nostri obiettivi di esplorazione: la percorsi passo a passo insieme a mia sorella di soli 15 anni, sopportando le grida e gli insulti e le volgarità di ogni tipo che i soldati le rivolgevano, chiamandomi per di più cognato.
Ma quello che più mi fa pensare e riflettere negativamente è che questa base non è mai stata attaccata. Chissà, forse perché come esploratore fui un disastro.
Il mio totale coinvolgimento nel movimento rivoluzionario non poteva passare inosservato, nonostante tutte le precauzioni. La mia vita semiclandestina era dunque al suo punto terminale. Nel mio villaggio si diceva che l’esercito avrebbe ucciso ogni Figueroa che avesse trovato, indipendentemente dalla sua età.
Ma questa persecuzione non riguardava solo noi. L’esercito inizia e sviluppa una campagna di eliminazione fisica nella quale molti quadri guerriglieri vengono sequestrati ed uccisi. Vengono prese misure di sicurezza e vengono realizzate da parte nostra violentissime contro-rappresaglie.
Il prezzo che io ed i miei dovemmo pagare immediatamente fu la separazione o meglio la disintegrazione del nostro nucleo familiare. Avevamo un pezzetto di terra molto buono sulle colline dove nasce il rio San Juan. Uno dei nostri punti forti era la produzione diversificata: frutta, ortaggi e allevamento, avevamo anche 15 puledri che io adoravo; nonostante la guerra avevamo delle buone prospettive economiche, capacità di amministrazione e di pianificazione. Non eravamo ricchi, non avevamo soldi, ma mio padre aveva tutti i mezzi necessari per lavorare e per il tempo libero: chitarre, macchina per scrivere, attrezzi da ginnastica e monture da cavallerizzo. Eravamo poi una famiglia molto unita, cosicché la mia partenza fu ancora più difficile. Già erano andati via oltre a mio padre, i miei due fratelli maggiori, mia sorella ed ora io. Mia mamma mi abbracciò molto forte. Io, di appena 15 anni, ero il membro più giovane della famiglia che partiva per la guerriglia.
· NELLA SELVA COME GUERRIGLIERO.
Inizio così la mia vita nella guerriglia o più precisamente inizio l’entrata nella clandestinità totale, dalla quale sarei uscito solo nel dicembre del 1996. Dietro restano i ricordi: la mia fanciullezza e la nostra vita famigliare. Me ne vado molto emozionato e mi faccio mille idee su quanti e come saranno e cosa faranno nella selva i "veri" guerriglieri. La fantasia si impadronisce di me e me li fa immaginare come super eroi. Del resto non mi mancava il tempo per fantasticare: ero partito da Colpetén e dovevo arrivare a Los Batres. Una bella camminata! Ma quale è la mia sorpresa quando vi giunsi! Io che mi aspettavo un contatto con la guerriglia armata vedo che all’appuntamento c’è mio zio Chicote assieme ai miei cugini. Fu una festa. La festa durò tre giorni, dopo di che chiesi che mi mandassero davvero a ciò che supponevo dovesse essere la mia meta: la guerriglia. Ma la cosa non fu così semplice. Altra lunga marcia per trovare, dove arrivo, la stessa situazione che nel mio Colpetén: una crescita enorme dell’organizzazione semiclandestina, ma di guerriglia nessuna traccia.
Mi sciroppai ancora una volta l’ennesimo corso di formazione, questa volta finalizzato alla costruzione di ricoveri e trappole di tipo vietnamita, cosa che appresi facilmente. Dopo la teoria arrivò la pratica. Ricevetti l’ordine di costruire in differenti settori del municipio, in punti chiave, grandi rifugi e magazzini, osservando le più strette misure di sicurezza. Ciò che più mi è restato nella memoria riguarda la costruzione di uno di questi manufatti, con capacità di stoccaggio per più di due tonnellate di viveri, vicino alla località Los Chorros. A questo rifugio dedicammo tempo ed affetto e le pitture che disegnavamo nelle parete riflettevano questo nostro stato d’animo. In una avevamo fatto un sole nascente che con i suoi potenti raggi di luce dava forza ad una moltitudine di rose multicolori. In un’altra parete figurava un anziano che osservava correre dei conigli e più in là un gruppo di bambini. Nella parete opposta all’entrata spiccavano 5 raggi di color rosso intercalati con punti neri. La strana composizione, della quale mai compresi il significato, era opera di "Tractor". Posso solo pensare, riflettendoci ora, che fosse il frutto del casino che aveva nella testa visto che in una sola settimana era riuscito sia sposarsi che a divorziarsi. Ma il motivo reale che mi fa ricordare questo rifugio, che noi battezzammo con il nome di "Compagno", è semplice: è qui che iniziò il taglio veramente netto con il nostro passato, scommettendo tutto il nostro futuro nella lotta armata.
Fu molto duro sapere, quando un giorno ci informarono, che "Compagno" era stato saccheggiato dall’esercito. Ma fu ancora più insopportabile, a guerra finita, dover sentire il capitano della G2 di Santa Elena -quando ci incontrammo nell’hotel di questa città per discutere del nostro concentramento- raccontarci, molto dettagliatamente, come fosse riuscita ad entrare in "Compagno" e quante granate vi avesse fatto esplodere senza riuscire a distruggerlo. Non si dimenticò di commentare il presunto significato dei nostri disegni sulle pareti: ma anche per lui i cinque raggi di "Tractor" restavano un mistero. Ipotizzò che significassero che il rifugio era il numero cinque.
Seppi così, 15 anni dopo averlo costruito, che il "Compagno" esisteva ancora.
Iniziamo le "corse" per entrare in combattimento: tutto era un unico movimento. La confusione dei giorni gloriosi, voglio definirla. Sapevamo che tra poco i nostri fronti sarebbero entrati in azione e la domanda era: ma dove sono? Io viaggiavo da un punto all’altro del Petén visitando le basi clandestine. Molti compagni stavano garantendo le vie di comunicazione, altri gli accampamenti guerriglieri, ed infine altri ancora i centri di produzione di mais, fagioli, riso e frutta. Una confusione totale.
Dopo avere coordinato il tutto con i compagni di San Benito, devo ricevere il primo invio d’armi, di notte. Quando, alle 10 di notte, ascolto il rumore del motore di un camion i nervi mi tradiscono, anche se il freddo di quel Natale era forte.
Ricordo bene i segnali che avevo messo al bordo della strada prima di arrivare all’incrocio di Josefinos, per prendere verso la fattoria San Francisco. Quando il camion arrivò spense i fari e li riaccese tre volte ripetutamente. Eccoli, dissi e uscii. Un forte abbraccio con il conducente e gli dissi di continuare. Ricordo bene l’emozione di quando aprimmo il contenitore. Due mitragliatrici M-60, molti fucili M-16 e Fal, grande quantità di munizioni. Tutti molto felici, caricando i sacchi, gli zaini e le uniformi; insomma tutti i rifornimenti necessari. Anche la sentinella aiutò a caricare. Ci dimenticammo di tutto, assolutamente tutto. Ricordo bene come il camion portasse un gran numero di regali natalizi che nessuno degnò di uno sguardo. Credo che l’invio fosse veramente grande. Tutta la notte la passammo ammirando il nostro arsenale. Con questo ben di dio- pensavo – in tre mesi vinciamo la guerra. La mia ingenuità infantile si faceva nuovamente viva. Dopo 10 giorni iniziammo a ripartire l’armamento con i compagni del municipio de La Libertad. Iniziammo a decidere che arma doveva prendere ciascuno di noi. L’unico che aveva problemi ero io, sia per la mia piccola statura che per la mia giovane età. Ricordo che il comandante "Ruíz", in relazione alla mia statura ed alla mia età, disse che io non sarei andato a combattere e fu così duro con me che quasi stavo per piangere. Tutti i compagni presero la parola per difendermi e la discussione si scaldò tanto che intervenne mio padre e gli disse che mi lasciasse partecipare perché io sapevo ciò che facevo e che inoltre avevo dimostrato di essere coraggioso. Il comandante "Ruíz" chiuse la discussione ordinando: "Va bene, andiamo; però su questo non si transige! Niente M-16, dategli una carabina 30-M1". Per quanto discutessi ricordando quante capacità avessi con le armi, fu impossibile convincerlo. Alla fine i miei compagni mi dissero di lasciarlo perdere che poi me ne avrebbero dato uno. Ma a parte questo, è certo che quella notte facemmo e disfacemmo il mondo. Eravamo come tanti bambini con giocattoli nuovi, con giocattoli, però, che uccidevano. I giorni passavano e alla fine il compagno "Gary" mi manda a dire che mi preparassi a partire domani per la mia destinazione al fronte. L’addio fu commovente: cibo, liquori, abbracci e lacrime … ma soprattutto la sensazione che ce ne andavamo per liberare la nostra gente, il Guatemala.
Il benvenuto nella selva me lo danno le grida e gli urli delle scimmie. Provo a controllare la mia emozione perché, questa volta, sono vicino ad incontrare il mio primo contatto, il compagno "Gary". Così inizia per me la guerra. Contemporaneamente a me, dalle differenti Comunità e villaggi, arrivano altri compagni. Nasce così la prima guerriglia operante nella zona de La Libertad.
Un totale di 45 entusiasti e veri patrioti. Tutti giovanissimi, escludendo i dirigenti; tutti senza una vera esperienza militare e tutti con la stessa convinzione di andare ad incontrarsi con un gruppo guerrigliero già esistente, ben esercitato e coeso. Fu emozionante quando ci incontrammo. Riconobbi subito il comandante "Ruíz"; per la prima volta lo vedo in verde-olivo, cinturone, pistola e fucile nella mano e con il suo autoritarismo radicale. Iniziarono a distribuire l’armamento. Tutti con fucile automatico ed io con la vecchia carabina 30-M1, così come mi avevano detto. Non potevo fare nulla. La statura e l’età sembravano complottare contro di me. Il comandante "Ruíz" ci riunì e con tono severo ci fece innumerevoli avvisi che di fatto erano minacce. Come inizio, mi sembrò impattante ed anche fastidioso. Ciò che era stato appena detto contraddiceva totalmente la formazione e lo spirito solidale con i quali eravamo stati educati. L’unica cosa che mi manteneva in piedi era la volontà e, in qualche modo, la mia decisione di ignorare "Ruíz" per quanto fosse possibile; per questo mi mantenevo sempre vicino agli altri dirigenti. Mi sembra opportuno avvertire che il comandante "Ruíz" è stato ed è un eccellentissimo rivoluzionario; la gioventù non mi permetteva di accettare i suoi avvertimenti e la sua severità.
"Compagni" – diceva "Ruíz"- "qui non è come stare in casa. Vorrei davvero sapere quanti tra voi sono qui per serie motivazioni e quanti per il tradimento della fidanzata" e per risparmiare tutta la sua filippica dico solo come terminò: "Io so che non resisterete ed ancora peggio diserterete".
Così era "Ruíz". Io giurai che questo non mi sarebbe accaduto.
Quella estate del 1980 eravamo esattamente a Los Chorros nella piccola proprietà di alcuni compagni; ci sentivamo come a casa. Lì comincia il vero addestramento militare. E continua l’educazione politica ed ideologica di cui ricordo bene i temi più frequenti: il rispetto alla vita, l’identificazione del vero nemico e le distinzioni tra popoli e governi. "L’imperialismo nordamericano" –ci dicevano i compagni responsabili- " non è il popolo nordamericano".
Ed ugualmente studiavamo la specificità del capitalismo guatemalteco, le qualità dei generali ovvero del comando supremo dell’esercito e del nostro nemico immediato, il soldato. Il quale cessava di essere un nemico dal momento in cui era disarmato o ferito. Per ogni tema si aprivano una serie di forti approfondimenti, come l’incorporazione della donna al movimento rivoluzionario.
Tutto era impegnativo: la nostra educazione era integrale, la nostra preparazione militare speciale.
Parallelamente a tutto questo mi viene confermato il mio lavoro nella logistica. Continuare a ricevere gli invii di armi e provvigioni. Ricordo bene l’ultimo invio che ricevemmo. Erano RPG-2. Fu la peggiore della mia esperienza. Aspettai il contatto in San Benito, nell’antico ospedale. L’invio ebbe un ritardo ed io mi innervosii e presi la decisione di ritornare al campo. In questa maniera stavo disobbedendo all’ordine di "Ruíz". Quando lui mi vide ritornare al campo, erano le 5 di sera, mi disse: "Che ci fai qui?" Cercai di spiegare, ma "Ruíz" mi ordinò di tornare indietro immediatamente e di aspettare la consegna. Per me, allora, il peggiore nemico non era l’esercito, ma la solitudine ed il buio. A Los Chorros potevano arrivare solo pick-up e di giorno; i bus arrivavano solo a Palestina. Non mi restava altra opzione che mettermi subito in cammino. Arrivai a Vista Hermosa alle 6 di sera e naturalmente non c’era trasporto. Dovevo aspettare il giorno dopo e non potevo. Così continui, tremando dalla paura; come armi avevo solo due pietre che tenevo nelle mani. Mi levai le scarpe per non far rumore così da poter individuare per primo eventuali pericoli. Alle due di notte arrivai a Josefinos. Mia sorella maggiore prima si arrabbiò per la mia indisciplina e poi pianse a vedermi arrivare in quello stato. Per lei restavo un bambino da proteggere cosicché, visto che il bus partiva alle quattro, mi convinse a riposare sino a quell’ora. Lei mi avrebbe svegliato. Disgraziatamente dormimmo tutti e due sino alle cinque e partii solo alle sette di mattina. Dopo varie peripezie arrivai a San Benito e mi diressi alla casa di un nostro collaboratore. Egli mi informò che l’invio previsto era arrivato il giorno stabilito e che il compagno che aveva trasportato il materiale mi stava cercando nei luoghi dove pensavano mi potessi trovare. In auto mi lanciai alla sua ricerca e fortunatamente lo raggiunsi nel Subín. Questo compagno fu molto comprensivo. Non mi rimproverò. Assieme aspettammo la notte per arrivare nel posto dove avremmo scaricato le armi. Ci arrivammo alle otto di sera e naturalmente non poteva mancare "Ruíz" che era lì con altri 25 compagni. "Guarda un po’" -mi dice- "sono già quattro notti che ti stiamo aspettando. Bravo ragazzo ce l’ hai fatta." Aggiunge poi inaspettatamente e battendomi le mani sulle spalle. Quella fu l’ultima volta che vidi il compagno addetto al trasporto di materiale bellico. Seppi che l’esercito lo aveva catturato mentre svolgeva lo stesso compito. Al ritorno, nell’accampamento, la festa fu grande. Fu in questa occasione che conobbi per la prima volta l’ M-79 e l’ M-14. Io volevo cambiare la mia 30-M1 con uno di questi fucili automatici, ma naturalmente fu impossibile, non vollero. Stavano terminando tre lunghi mesi di addestramento e stavamo anche dirigendoci ad un altro accampamento. Fu esattamente in questo momento che si incorporò la prima donna guerrigliera: la compagna "Tellez", che noi chiamavamo anche "la unica". Il suo arrivo mise in movimento l’accampamento più che l’avvicinarsi di un plotone dell’esercito. Qualunque cosa le venisse in mente di fare aveva subito a disposizione 3 o 4 di noi disposti ad aiutarla incondizionatamente. Si avvicinava ai 14 anni, di statura regolare, ed era un po’ più alta di me. Una volta dovevamo passare una palude. La compagna "Tellez" marciava in testa e la profondità dell’acqua aumentava mentre avanzavamo. Arrivata quasi a metà per avvisarci che la cosa si faceva più difficile gridò: "Ragà’, l’acqua mi è arrivata alle mutandine". Inutile dire la risata che seguì alle sue parole. Da allora quel pantano fu soprannominato "la palude delle mutandine bagnate".
La compagna "Tellez" ed io, credo per motivi di età, arrivammo ad avere un avvicinamento molto particolare, speciale; tanto che, in un modo o in un altro, sentivamo l’uno il bisogno dell’altro.
Intanto il comando decide di strutturare il nostro gruppo in plotone. Cosa da non credere, non trovo il mio nome inserito nel plotone. Il tenente "Vidal" si sforzava di dimostrarmi che aveva bisogno di me per formare una milizia. Ma per me era inconcepibile, inaccettabile che dopo tanti sforzi mi trovassi escluso da ciò che io chiamavo "linea di combattimento". La decisione, ormai presa, sembrava non discutibile: capo plotone "Ramón", sottocapo "Gary", terzo al comando "Record".
In tre, "Tractor", "Chico León" ed io, dovevamo restare per realizzare il reclutamento e l’addestramento dei nuovi arrivi, sviluppare la struttura politico-organizzativa e garantire i rifornimenti: assieme a noi si fermavano il comandante "Ruíz" ed il tenente "Vidal". Tutti erano allegri, esclusi noi tre che restavamo.
Il giorno della marcia di spostamento dei compagni, 45 combattenti, "Chico León" ed io siamo assegnati a far da guida alla colonna sino ad arrivare a Las Guajas. Un giorno di cammino. Certo ora capisco la preoccupazione del comando e le ragioni per le quali noi tre non potevamo andare al fronte. Noi conoscevamo tutta la rete operativa della nostra logistica e l’ubicazione delle riserve belliche. Non era quindi prudente rischiare su di noi. Arrivati vicini a Las Guajas, i compagni della colonna tentarono di salutarci dandoci tutta una serie di consigli e dicendo che sarebbero tornati presto.
Io mi fermai e dichiarai con forza che non sarei tornato indietro, anche se loro non mi volevano. Insomma, piantai un tale casino che non poterono far altro che accettarmi.
"Chico León" disse che se io restavo non potevano che fare uguale con lui, cioè accettarlo nella colonna.
E così fu. Tutti eravamo felici; noi ed i compagni della colonna. Continuai a fare così da guida alla colonna con direzione a Tres Aguadas, vicino a Tikal.
Dovevamo incontrarci con un’altra colonna, simile alla nostra. Capii allora perché una consegna di armi non l’avevamo tenuta con noi, ma l’avevamo inviata in altro luogo.
La marcia durò 30 giorni, nei quali, secondo noi, affrontammo il peggio della marcia guerrigliera: fame, sete, stanchezza, sporcizia. Quello che ci aiutava era la giovinezza e l’entusiasmo. Mangiavamo di tutto e ci sentivamo forti come dei Superman, dei veri guerriglieri; ma naturalmente non era così ed il più difficile doveva ancora arrivare. Giungemmo in una piccola frazione, La Gloria, praticamente sulla strada che porta al Naranjo. Ci accampammo sulla riva della laguna, circondata da un bellissimo bosco.
Tutto questo era una novità e ci piaceva molto. Dopo un buon riposo riprendemmo a marciare verso la laguna La Perdida e El Yeso. Arrivati a San Andrés ed al lago Petén Itzá, la truppa dava segni di stanchezza. Fui scelto per andare a comprare ciò che necessitavamo nel municipio di San Andrés. Comprai molti viveri facendomi passare per un chiclero. Durante la notte marciammo attraverso tutta la riva del lago arrivando così a un certo luogo chiamato La Liona. Il comando ci informò che eravamo prossimi ad incontrarci con la forza guerrigliera comandata da mio fratello "Tono".
A me dettero l’incarico di costruire un grande magazzino segreto, alla vietnamita, dove avremmo immagazzinato viveri per la futura guerriglia. Ancora una volta mi lasciano e la colonna continua senza di me la sua marcia, con la promessa che dopo 15 giorni sarebbero tornati a riprendermi. Alla Liona resta con me "Chico León". Mi sono sentito male, ma mi spiegarono che era necessario farlo perché questo luogo sarebbe diventato zona operativa e che non avremmo cominciato ad attuare senza che avessimo le riserve indispensabili. Questo mi stimolò perché il grande guerrigliero che pensavo di essere voleva partecipare al suo primo combattimento e inoltre sognava di essere un buon combattente perché in questo modo sarebbe arrivato ad essere ufficiale.
· IL DURO PREZZO DELLA GUERRA NELLA SELVA.
Mi ricordo bene il secondo giorno di lavoro in quella calda estate in cui la madre natura ci negava l’acqua. C’era una scarsità spaventosa del vitale liquido e questo contribuì a fiaccare e demoralizzare i compagni, che, senza di noi, stavano marciando verso un inaspettato e tragico battesimo di fuoco che li avrebbe convertiti da combattenti di "ferro" quali pensavamo di essere a combattenti di "cioccolato" quali in quel momento eravamo.
A mezzogiorno, in pieno sole e senza una goccia d’acqua, nessuno aveva nemmeno la idea di cosa potesse essere in realtà un combattimento Molto meno potevamo immaginarci cosa poteva essere lo scoppio di un obice o di un mortaio od un attacco aereo. Era qualcosa che neppure in sogno né nella nostra mente potevamo immaginare. La nostra colonna era molto vicina all’entrata dell’accampamento dove avrebbe dovuto unirsi con la seconda colonna di compagni che occupavano quella base. Però la stanchezza li vinse. Soprattutto incise il fatto che la colonna aveva uomini per terra su tutti e due i lati del sentiero e per questo fu presa la decisione di entrare nell’accampamento la mattina dopo, che fu poi il giorno fatale.
Le facce dei nostri compagni sono ora sorridenti; sta per finire un altro giorno e solo un chilometro li separa dall’accampamento. Ma ignorano che l’esercito sta perseguendo la colonna di "Tono" che ha per questo dovuto lasciare la base, e che mentre si apprestano a dormire, i sodati hanno già circondato l’accampamento.
La nostra colonna riprende il cammino la mattina dopo, già assaporando un accogliente riposo, cibo ed acqua. Il sorriso, che mi immagino i compagni avevano nello scorgere l’accampamento, svanì improvvisamente.
L’esercito era pronto per l’assalto e quando i nostri compagni arrivarono alla linea esterna della base i kaibiles aprono il fuoco realizzando una totale sorpresa tattica. L’ordine combattivo dei nostri compagni, ragazzi senza esperienza di combattimento, viene immediatamente disarticolato.
Con il compagno "Chico León" dall’accampamento de La Liona ascoltavamo a grande distanza le forti esplosioni e il rombo degli aerei. Non potevamo immaginare come poteva essere un combattimento. Eravamo molto lontani da questa realtà. I combattenti di "Tono" sentendo i colpi secchi degli spari operano una riconversione, ed attaccano l’esercito lottando come fiere. Risuonavano nel mezzo della selva le detonazioni delle mitragliatrici e delle armi da fuoco di calibro differente. La colonna di "Tono" lottava e difendeva ferocemente ogni palmo di terreno. Fu una gran battaglia, tanto che l’esercito non ebbe il coraggio di continuare a combattere. Però la nostra colonna risultava pesantemente sconfitta con morti e feriti e ciò che fu peggio senza sparare un solo proiettile, totalmente abbattuta e con un comando totalmente inesperto: una colonna di combattenti di cioccolato.
Nonostante tutto, c’era un pugno di valorosi che incitavano i nostri ufficiali perché si iniziasse il combattimento, perché aggirassimo la linea dello scontro congiungendoci così con gli altri nostri compagni che stavano impedendo all’esercito di realizzare l’annientamento della nostra colonna. Ma la maggior parte dei nostri avevano l’animo pieno di paura e di disperazione.
Certo non era facile vedere il terzo ufficiale perdere abbondantemente sangue dal petto e con un occhio fatto a pezzi. Avevano iniziato a ranghi completi e ora avevano già molte perdite. La verità è che era molto difficile combattere con ferito grave e senza medico, e ancora peggio il fatto che tutto questo non era stato previsto. In realtà, mai avevamo pensato quanto sarebbe stato difficile gestire dei feriti in un combattimento. Da un punto di vista umano preferivamo avere feriti e non morti anche se era difficile curarli e proteggerli durante lo scontro. Come rivoluzionari sapevamo che qualunque perdita materiale è riscattabile a differenza della morte di un compagno. Preferivamo perdere un fucile che un compagno, a differenza dell’esercito per il quale gli uomini valevano molto meno dei fucili.
La decisione finale del nostra colonna fu ritornare a La Liona e in condizioni molto più difficili dell’andata: il morale a terra per la sconfitta, molti giorni senza magiare, una scarsità di acqua spaventosa. Con una marcia forzata e caricando a spalla i feriti gravi i nostri compagni entrando in una forte crisi, la quale nel secondo giorno si aggrava. La disperazione obbliga i compagni a prendere decisioni estreme: bere le proprie urine…..la situazione diventa insostenibile. Una staffetta sveglia "Chico León" e me: l’ordine è di incontraci con la nostra colonna portando cibo e abbondante acqua. L’incontro fu difficile, tutti gli sguardi erano carichi di angoscia e disperazione, pochi mantenevano un morale elevato e lo spirito combattivo, tra di loro "Gary" e "Fernandez" i quali termineranno la guerra come comandanti, rispettivamente del Fronte Sud e Nord. Però in questo momento della vita eravamo solo combattenti della colonna guerrigliera. Alla fine arrivammo all’accampamento de La Liona. Tutti commentavano come fosse stata dura e sconvolgete l’esperienza fatta ed alcuni mi invitarono a disertare. Tra questi c’era pure la compagna "Tellez" che per me rappresentava qualcosa di speciale. Immediatamente comunicai al comando la pericolosità della situazione e contemporaneamente suggerii prudenza nel prendere decisioni e relative misure. Non vi era chiarezza di idee: decidemmo di usare metodi di convincimento che non dettero risultati efficaci. "Ramón" che era il capitano mi ordina di ritornare a La Tecnica con una lettera per il comandate "Ruíz" con la quale lo informa della difficoltà della situazione. "Ramón" voleva che io andassi e ritornassi a piedi utilizzando mappa e bussola: un mese di cammino per andare , due mesi per tornare. Gli dissi che era pazzo e che avrei preso un mezzo di trasporto e che dunque qualcuno mi accompagnasse al villaggio più vicino e che io avrei pensato al resto. Ricordo quel triste giorno, prima della prevista partenza per portare la lettera: alle 10 della notte arrivarono da me quelli che mi avevano invitato a disertare. La "Tellez" mi ripropone di scappare con tutti loro. Gli domando l’ora della loro partenza e mi dicono che se ne stanno già andando. Lasciatemi allora parlare con "Tellez" – dissi – e tra due ore vi risponderò. L’unica cosa che ottenni fu di convincere "Tellez" a rimanere con noi e la convinsi pure ad andare entrambi ad avvisare il comando. Cosa molto difficile perché il nostro giuramento ed il nostro regolamento prevedevano la morte per la diserzione. Ma il comando si trovava più "cagado" e confuso di quelli che volevano disertare e per una semplice ragione: quelli che volevano andar via sapevano già che fare, mentre il comando ancora non reagiva. Io stesso mi sono sentito defraudato quando "Ramón" mi rispose : "Lascia fare questi compagni; se vogliono andare che vadano e tu aspetta ad andare da "Ruíz" " .
Che era come inginocchiarsi di fronte all’avversario. Conoscendo il comandante "Ruíz" io sapevo già quello che dovevamo fare. Ritornai nell’accampamento e dissi a tutti i ragazzi: Ragà’ restate, resistiamo, questa non è la fine!
Ma alle sei della mattina iniziarono a disertare. Nelle mie vene il sangue scorreva turbinosamente. Per me i cinque disertori erano il peggio, il peggior rifiuto della società. In maniera automatica diventavano la cosa più disprezzabile.
Otto giorni dopo la colonna era ridotta a meno di 15 unità. La scena dava i brividi. Vedere sia un monte di fucili e di cinturoni ammucchiati nel mezzo dell’accampamento, che percepire uno stato d’animo dubbioso nel resto della truppa, ascoltando da loro ogni tipo di commento.
Alla fine mi viene nuovamente ordinato di raggiungere la retroguardia. Portavo con me una voluminosa relazione.
A La Tecnica mi ricevette il compagno "Rubelio", lo informai della situazione e gli chiesi di accompagnarmi all’accampamento dove si trovava il comandante "Ruíz". Il giorno dopo, presto, partimmo verso il famoso torrente El Mico, dove aveva il campo base "Ruíz". Appena entrato lo vedo e mi metto immediatamente sugli attenti tentando di dare un rapporto generale della situazione.
Egli mi interruppe urlandomi: " Tu sei un disertore! Dove è "Chico León" ?"
In questa occasione conobbi il comandante in capo "Pablo Monsanto" e la capitana "Maria". Il comandante "Monsanto" si avvicinò a "Ruíz" e gli disse: "Calmati Chino, ascoltiamo il compagno". "Ruíz" tremava dalla rabbia, io ne approfittai per dire al comandante "Pablo" che avevo con me un messaggio urgente di "Ramón". Il comandante in capo mi domanda: " Sei Rony, figlio di "Bacho"?"- poi mi salutò tendendomi la mano e mi chiese di raccontare come era andata. La prima cosa che dissi fu che né io né "Chico León " eravamo disertori e dopo tutta la storia del viaggio e infine della diserzione dei cinque compagni.
"Ruíz" tremava dalla rabbia e mi gridava: " Perché non li avete fucilati immediatamente? Dovevate fucilarli!"
Furono momenti molto tesi e quando io gli dissi che dovevo tornare indietro il giorno dopo per portare la risposta, "Ruíz" mi disse: " Da qui non ti muovi. Siete un branco di disertori!". Ancora una volta il comandante in capo intervenne dicendo a "Ruíz" : " Che Rony torni indietro con la risposta, e dopo riparta immediatamente per qui assieme a "Chico León"!". "Ruíz" accettò e cominciò a farmi delle domande; io cercai di dargli tutte le informazioni che avevo, con il massimo dei dettagli. "Ruíz" aveva due personalità una come militare e l’altra come rivoluzionario. Era veramente impossibile decifrare la sua personalità conoscendolo, allora, da così poco tempo. Fu in questa, per me, difficile situazione che "Ruíz" mi disse che al ritorno io e "Chico León" ci saremmo incorporati alla squadra di sicurezza di "Pablo".
Al ritorno chi vidi per primo fu il comandante "Ruíz". Tutto era allegria nel suo volto; si notava un cambiamento radicale e immediatamente mi domandò: " Sai chi c’è qui? Sorpresa!". C’era mio fratello "Tono" con il grado di capitano, onorato da tutti per il vittorioso combattimento di Tres Aguadas. Anche "Ruíz" lo complimentava. Ci raccontarono i dettagli dello scontro, nel quale la nostra colonna aveva bevuto dalla parte amara del bicchiere.
Stesso combattimento, stesso terreno, contro lo stesso comando nemico dell’esercito! La differenza stava nel comando delle due colonne guerrigliere.
A partire da questo momento in poi inizia il mio compito nella squadra di sicurezza del comandante "Pablo".
I primi giorni furono allegri. Il tenente "Vidal" spesso mi prendeva in giro per la battaglia persa dalla nostra colonna; io gli raccontavo la pena che mi dava sia la poca preparazione militare dei combattenti di quella che era stata la mia colonna, che l’inesperienza totale del nostro comando. In qualche modo cercavo di giustificare la situazione dandogli meno importanza.
Quello che "Vidal" non sapeva era che la morte già gli stava vicino.
Le cattive notizie arrivavano in continuazione: informano il comandante "Pablo" che le case di sicurezza della guerriglia urbana nella capitale cadano una dopo l’altra ed in una di esse era stato ucciso "Herbert", un altro dei veterani che era appena arrivato in città dal Petén. La situazione era molto tesa e sfiancante e il nemico ci colpiva fortemente e noi facevamo ogni tipo di sforzo per limitare i danni. Psicologicamente reagivamo alla morte di ogni compagno gridando il suo nome per tre volte e rispondendo "presente",quando ogni mattina ci esercitavamo in formazione. Inoltre, per noi, i rivoluzionari non morivano mai. Solo ci lasciavano fisicamente.
La barbarie dell’esercito, lontano dall’impaurirci, ci consolidava nella nostra decisione di lotta. Avevamo poi chiare piattaforme politiche che la lotta armata ci avrebbe permesso di realizzare.
Ricordo bene quando nell’accampamento il tenente "Vidal" ci ha salutato con un: "Ritorno presto ragazzi, tra tre giorni sono qui di nuovo; vado solo a Bonanza".
L’orchestra delle scimmie aviatrici non mi permise di sentire le ultime parole che mi disse, però – mentre mi sorrideva in modo scherzoso- potrei giurare che mi abbia gridato: "Stai attento ragazzo, se per caso non torno!".
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