UNA NECESSARIA AUTO-PRESENTAZIONE DELLA NOSTRA AZIONE, NEL QUADRO DELLA DENUNCIA DEL RUOLO DELLE ONG
(Mauro Pellizzi)
Aver proposto e cercare di praticare un internazionalismo e una solidarietà militanti potrebbe essere una dichiarazione abbastanza sintetica ma efficace dell’idea caratterizzante le "Brigate di Solidarietà e per la Pace" (Brisop). Definirlo internazionalismo dal basso è a nostro avviso il modo più adatto a esprimere alcuni degli elementi che dovrebbero essere caratterizzanti di quei movimenti e organizzazioni che in diverse parti del mondo lottano contro le criminali politiche del neoliberismo: infatti una volta acquisita come fondamento la necessità di una lotta comune e dato avvio a vitali relazioni internazionali, il più coerente e dignitoso risultato è l’affermazione di rapporti paritari, da lavoratore a lavoratore.
Reciprocità e relazioni dirette sonno allora caratteri fondanti dell’internazionalismo dal basso, non mediato da terzi o per conto di astratti e lontani esecutori. L’invio di brigate di lavoro in realtà rivoluzionarie se da un lato è mosso dall’accettazione di obiettivi e metodi condivisi in grado di modificare l’amara realtà in cui versa la gran parte della popolazione mondiale, ponendo prima di tutto lo scambio su di un livello non meno importante ma più fatto di principi, dall’altro cerca di rispondere fin da subito, nella pratica, alla necessità di far incontrare, mettere a confronto, far cooperare e lavorare coloro che hanno la capacità di farsi promotori di un autentico cambio: uomini e donne appartenenti alle classi sociali più colpite dalla globalizzazione, organizzate in strutture e movimenti popolari. Appoggio economico e tecnico dei progetti e delle attività utili allo sviluppo e alla sopravvivenza della comunità di riferimento, supporto politico attraverso l’accompagnamento e la testimonianza delle lotte e dei loro protagonisti, diffusione e informazione attraverso canali altrimenti negati, scambio di esperienze e ritorno politico sul nostro territorio attraverso la presenza in Italia delle realtà rivoluzionarie del Sud e di promozione di nuove brigate di lavoro. Programmi e progetti non imposti, ma nati da una elaborazione comune per soddisfare bisogni ed esigenze collegialmente individuati e soprattutto sempre vigilati dal presupposto di rompere l’unilateralità del classico rapporto Nord/Sud.
Chi partecipa alle brigate di lavoro lo fa per adesione all’idea che la solidarietà internazionalista non debba essere considerata un’attività lucrativa, perché la figura del "professionista della solidarietà" altro non è che frutto delle stesse politiche che affamano il nostro pianeta. Guadagnare sulla miseria degli altri, essere stipendiati da coloro detengono il potere e la capacità decisionale non è solidarietà, è una forma di parassitismo. L’internazionalismo che si deve affermare è quello che non ammette destinatari passivi, accomodanti per una soluzione limitata alla propria comunità, molte volte destinata unicamente al proprio nucleo familiare se non addirittura a risolvere questioni economiche individuali.
Si tratta di costruire percorsi comuni, pratiche di antagonismo e ipotesi di alternativa nella propria realtà e metterle in relazione con altre esperienze di lotta, lontane tra loro, ma rappresentative delle reali aspirazioni di una popolazione. I soggetti coinvolti (organizzazioni, comunità, sindacati, associazioni e movimenti) si adoperano affinché il cammino per il raggiungimento di un obiettivo risponda agli impegni politici sottoscritti e in un ottica per cui l’assoluta indipendenza delle scelte e autonomia della struttura non vengano mai a trovarsi vincolate ad elemosine economiche e imposizioni culturali.
Questa metodologia ci ha accompagnato fin dalle prime brigate di lavoro, organizzate nell’estate del 2003 in Guatemala presso la Cooperativa Nuevo Horizonte (costituita in gran parte da membri delle ex FAR del Petén). Un primo gruppo di compagni che videro fin da subito allargare il proprio ruolo partecipando al coordinamento e rafforzamento delle locali lotte ambientali e sociali con Alianza Por la Vida y por la Paz e con il Frente Petenero contra las Represas. La volontà di partecipare alla costruzione di un nuovo internazionalismo atto ad ostacolare le nuove ondate di ristrutturazione liberista ci ha portato ad individuare alcuni organizzazioni che nel continente latinoamericano si rendono protagoniste di conflitti sociali e portavoce di istanze popolari e indigene. In particolare abbiamo cercato di evidenziare quelle realtà che abbiamo definito di contropotere, ossia cercano di costruire risposte antagoniste alla monodirezionale miseria offerta dall’imperialismo nordamericano e dalle istituzioni economiche e politiche ad esso collegate. E’ il caso del Movimiento Teresa Rodríguez fondatore del Blocco Nazionale Piqueteros in Argentina, ma anche delle relazioni con il Movimiento Revolucionario Oriental dell’Uruguay, con Justicia y Paz della Colombia, organizzazioni sociali queste che portano avanti forme di autorganizzazione sul territorio, estranee alle strumentalizzazioni di istituzionali nazionali ed internazionali e degli organismi non governativi.
Portare avanti un percorso di questo tipo non poteva non evidenziare le contraddizioni dei variopinti attori operanti nel campo degli aiuti pubblici allo sviluppo. Ma più che contraddizioni di un sistema, incapace o maldisposto a gestire tutti gli angoli bui, non è azzardato parlare di peculiarità di un meccanismo che nella migliore delle ipotesi ripropone in un ottica assistenzialista e ipocritamente umanitaria forme di colonialismo economico e culturale.
Se risulta chiaro smascherare e condannare quegli organismi, quelle fondazioni e fondi, quegli istituti, quegli enti e banche e accordi e commissioni e agenzie nazionali e internazionali di sviluppo, per il progresso, contro la povertà, per la cooperazione che sono oramai riconosciuti emanazioni delle politiche neoliberiste dei paesi che li hanno creati o ne fanno parte, ancor più ovvio è deprecare i vari governi impegnati a brevettare guerre e interventi umanitari per dare sbocco alle proprie velleità imperialiste, per affermare il dominio su nuove zone strategiche per gli interessi nazionali o multinazionali, per il controllo non solo di risorse materiali (combustibili, acqua, territori ecc.) ma anche mercati e uomini.
Come definire allora coloro che a questo grande sistema che statuisce ricchezze e povertà a scala globale, devono la propria sopravvivenza? Come catalogare quelle organizzazioni che della solidarietà fanno una negoziazione e che nell’ingiustizia sociale ed economica trovano un guadagno privato? Come è possibile considerare integri i percorsi di quelle strutture per le quali la causa del problema e la soluzione del problema convergono nelle mani del finanziatore dei loro progetti? E ancora come è possibile non dubitare che i referenti di queste organizzazioni non siano le popolazioni alle quali sono destinati i progetti e i soldi, ma piuttosto siano i governi che utilizzano l’elemosina degli aiuti per lo sviluppo affinché sia garantito loro la capacità di interferire e limitare la sovranità di un paese?
Perché le Ong?
L’ammontare della rapina che annualmente il Nord opera a danno del Sud del mondo è stato stimato intorno ai 500 mila milioni di dollari tra pagamento del debito, sfruttamento delle risorse umane e materiali, fuga di capitali e scambi ineguali, ipocritamente il Nord cerca di colmare a questa situazione attraverso gli aiuti per lo sviluppo.
La percentuale di Pnl dei paesi donatori da destinare agli aiuti pubblici per lo sviluppo sono di volta in volta definiti, ma piuttosto che i buoni propositi è utile indicare che difficilmente l’elemosina effettivamente destinata ai paesi in via di sviluppo PVS supera lo 0,3% del Pnl (l’Italia si aggira intono allo 0,15%, alla conferenza di Monterrey del 2002 era stato auspicato di raggiungere almeno una media dello 0,7%).
Di fronte a questa pochezza ci potremmo immaginare che i paesi donatori nell’elargire queste somme tentino di porre rimedio al gap economico e sociale del quale sono la principale causa. Non è così. Lo spirito imprenditoriale per il quale ogni investimento economico è da considerarsi tale solo se comporta un guadagno, ha il sopravvento e il costo che il paese ricevente deve pagare ancora una volta ricade sulle fasce più deboli della popolazione.
Anche i passati governi colonialisti prevedevano aiuti e progetti di sviluppo delle aree sottomesse: dalla solida Inghilterra vittoriana al breve impero fascista tutti concepivano la necessità di reinvestire nei territori controllati, da squallide forme di assistenza per i bisognosi al rafforzamento dei trasporti, delle infrastrutture, ma anche della corruzione delle classi dirigenti locali, insomma destinare un seppur minimo "aiuto economico" era considerato essenziale per un pieno sfruttamento del paese assoggettato. Con la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale la parte d’Europa che accettò i finanziamenti previsti dal Piano Marshall abdicò alla sua sovranità in politica estera (l’Italia ancora si ritrova sul proprio territorio basi militari USA); difatti la sottomissione alla politica di contenimento del pericolo comunista significò per molti paesi uno sviluppo impensabile date le disastrose condizioni in cui versavano nel dopo guerra.
Negli anni Sessanta nasce ufficialmente la Cooperazione Internazionale Nord-Sud che ha obiettivi su scala planetaria: non è più il vecchio continente da salvare dal pericolo comunista, ma sono i paesi del Sud del mondo. Sono i neo-stati di recente liberatisi dal giogo coloniale, sono quei paesi dove le guerriglie e movimenti di sinistra rappresentano sempre più una minaccia, sono qugli stati dove il peso dello sfruttamento capitalista non lascia altra alternativa che appoggiarsi al blocco opposto.
Negli anni Ottanta dopo il ricorso alle tante dittature dei decenni precedenti, l’imperialismo USA agevola una spinta alla democratizzazione e naturalmente il dibattito sugli aiuti allo sviluppo acquista più importanza, come parlare di democrazia senza giustizia sociale? Naturalmente ciò comporterebbe l’interruzione del fiume di risorse che il Nord riesce a strappare al Sud.
Sono necessarie strutture che operino sul territorio, in grado di conquistare la fiducia della popolazione autoctona, possibilmente cooptando leaders locali e fondamentale, attenuare forme di organizzazione sociale in grado di mettere in discussione il modello di sfruttamento, devono inoltre apparire imparziali (solo a titolo di esempio questa neutralità di facciata è stata ulteriormente compromessa durante il conflitto iracheno, poiché molte Ong distribuivano sacchetti di cibo e altro materiale con il nome dello governo che le sponsorizzava).
Se fino al crollo del Muro di Berlino la politicizzazione degli aiuti allo sviluppo era vincolata ai due blocchi, quello che avviene dagli anni Novanta è la delega a organismi sovrannazionali (BM, FMI solo per richiamare alcuni esempi più lampanti) che si preoccupano che i fortunati destinatari delle loro attenzioni siano meritevoli dell’aiuto dei governi donatori. Il boccone è appetitoso: nuove risorse e nuovi mercati gestiti fino ad allora da regimi economici fortemente statalisti si ritrovano nell’impossibilità di misurarsi nell’arena della "libera" concorrenza, sono paesi che necessitano nell’immediato di aiuti esterni, inoltre con l’implosione del maggior avversario al libero mercato viene a mancare un’"alternativa reale". In un presente che sembra irreversibilmente assorbito da un unico convincimento, il libero mercato, e subordinato agli interessi delle multinazionali e dei loro sostenitori, è logico che la contropartita richiesta al paese beneficiario sia un aleatorio impegno per la riduzione della povertà o il rispetto dei diritti umani o stabilità politica a fronte di ben più concrete e remunerative richieste: liberalizzazione commerciale, privatizzazione delle maggiori e vitali imprese pubbliche, apertura agli investimenti esteri, riduzione della spesa pubblica, concorrenza e protezione dei diritti di proprietà.
Consideriamo le Ong vere e proprie affossatrici di sovranità quando affiancano eserciti stranieri in scenari di guerra o di immediata ricostruzione post-guerra, quando presenziano come agenti commerciali i loro finanziatori in aree economicamente sfruttabili, quando sottraggono, corrompendo e cooptando, energie ai processi di trasformazione popolari, quando indeboliscono comunità e movimenti attraverso microprogetti disgreganti e a favore di soluzioni individuali.
I danni che le politiche di ristrutturazione neo-liberista hanno causato nel Sud sono note a tutti: indebitamento e collasso delle economie statali, depauperamento delle risorse strategiche nazionali, stato sociale allo sfacelo e ampliamento della forbice tra redditi dei ricchi e dei poveri, il continente africano lasciato oramai alla deriva, distruzione ambientale grazie ad una agricoltura asservita ai consumi del Nord, al trasferimento nei paesi in via di sviluppo del trattamento industriale di sostanze e lavorazioni nocive bandite invece nei paesi nordamericani ed europei (maquilladoras) e all’attività estrattive e di sfruttamento del sottosuolo.
A fronte di tali danni e dei tanti insuccessi della cooperazione, il numero delle Ong è in aumento, si moltiplicano i progetti di sviluppo e ogni governo si preoccupa di avere a disposizione il proprio esercito di agguerriti volontari stipendiati. Dalle Nazioni Unite è stato rilevato l’incremento eccessivo di Ong e dei progetti per lo sviluppo, a fianco però di una poco chiara incapacità dei paesi donatori di coadiuvarsi, al fine di massimizzare i risultati con la suddivisione dei costi. In altre parole in molte aree si assiste alla ripetizione dei progetti fino alla resa inservibile anche di quelli che potrebbero avere qualcosa di buono. La non volontà di integrazione e collaborazione tra governi donatori non è altro che la determinazione di ogni stato a mantenere una presenza su un territorio, alla base c’è il timore che l’investimento possa perdere la sua redditività e favorisca qualche altro concorrente. Il ragionamento è più banale di quanto si possa immaginare: chi mette i soldi sceglie anche l’organizzazione che li deve gestire. Altrimenti come spiegarsi la vera moltitudine di Ong impiegate nei paesi che di volta in volta acquisiscono importanza nello scacchiere economico e militare mondiale? Nell’ottobre del 2001 Colin Powell definì le Ong americane operanti in Afghanistan «una parte importante del nostro combat team».
Una facile critica che ci potrebbe venir mossa è la generalizzazione alla quale ci portano le nostre analisi che non lasciano via di scampo nel condannare l’operato delle ONG. La punta dell’iceberg del fallimentare sistema delle Ong è stata già da anni segnalata da coloro che ne sono stati i maggiori promotori, le Nazioni Unite: progetti inconcludenti senza nessun coordinamento e verifica dei risultati da parte di terzi, parzialità e dipendenza dall’organismo o dal paese donatore, casi di corruzione, alimentazione del mercato nero (Missione Arcobaleno), creazione di dislivelli economici nella popolazione… I nostri interventi oltre a rimarcare la disastrosa soluzione Ong definisce l’incompatibilità di queste organizzazioni con qualsiasi percorso internazionalista, con qualsiasi fase utile allo sviluppo delle lotte sociali, alla rottura degli ineguali scambi per i quali le popolazioni del Sud versano il tributo maggiore.
Per ogni critica da noi fatta a qualunque Ong chiunque potrebbe proporci un altro esempio lodevole di queste organizzazioni, ma la questione che ci preme sottolineare (ma è impossibile non fare alcuni esempi), è come il capitalismo europeo e nordamericano sia stato in grado di costruire un meccanismo (quello degli aiuti), che non intacchi assolutamente la supremazia economica di pochi governi sul resto del mondo, per cui chiunque accetti di stare nella loro orbita, non può non rimanere compromesso.
La responsabilità maggiore di queste organizzazioni è la loro disponibilità, senza essere stati eletti o delegati, a rappresentare ampie fasce della popolazione (la cosiddetta società civile), a proclamarsi interpreti delle istanze popolari, cooptando leaders locali e rallentando, ma è meglio dire inibendo, percorsi di lotta, andando a tamponare emergenze alle quali dovrebbe provvedere uno stato di diritto, favorendo di fatto processi di privatizzazione, di soluzioni individuali e conflittuali tra comunità (i soldi sono sempre pochi rispetto alle necessità), vanificando l’imparzialità statuale di queste Ong troppe volte al servizio del paese finanziatore.
Questo tanto glorificato status di equilibrio delle Ong, le sole secondo i suoi sostenitori a poter gestire gli aiuti allo sviluppo, è stato ben presto neutralizzato dai crescenti costi burocratici e di amministrazione di queste strutture, da un minimo del 40% fino ad arrivare a oltre il 60% della somma destinata al progetto.
Sicuramente ci sono soggetti che operano nella massima onestà che cercano come equilibristi di non cadere nel pantano che li circonda:. Noi affermiamo che è improbabile riuscire a costruire un’alternativa quando questa implica la distruzione del sistema che ti alimenta e ti finanzia, ma soprattutto per noi non è possibile accettare che le energie, i sogni, le speranze e le lotte di milioni di uomini e donne possano essere in balia della buona fede di pochi individui.
Recent Comments