“relazioni internazionali dal basso”

1. UNA LETTURA DEL QUADRO PREGRESSO

Un percorso collettivo di coordinamento operativo e teorico, che, a partire dalle esperienze di lotta delle distinte situazioni nazionali possa permettere di individuare obiettivi comuni, di differente natura, sui quali le organizzazioni di classe  “concentrino il fuoco”, È DA SEMPRE in attesa di definizione. Tentativi sono stati fatti, ma i risultati, evidentemente, non hanno neppure avuto la forza di lasciare qualche traccia di indicazione politica concreta nell’oggi.La nota conclusiva del “Manifesto dei comunisti” –Proletari di tutto il mondo unitevi!- è generalmente considerata la telegrafica enunciazione della   ineludibile necessità di sviluppare una struttura di coor-dinamento internazionale; essa assumerà più tardi una differente forma espressiva, forse più incisiva –ristretta sempre nell’ambito di parola d’ordine- universalmente conosciuta  come “internazionalismo proletario”.  Per limitarci ai tentativi di coordinamento internazionale più conosciuti, è il caso di ricordare la Iª, IIª e IIIª Internazionale –dalla quale derivano in tempi distinti due sue schegge totalmente degradate, la sua successiva numerica, IVª, e il “Cominform”- le quali puntualmente esplodono od implodono ad intervalli di tempo quasi costanti. 1.1. Periodo delle “Internazionali”Il fatto che nella fondazione e nella direzione delle prime tre Internazionali intervengano rispettivamente Marx ed Engels (1864), Engels (1889) e Lenin (1919), fa aumentare esponenzialmente l’attenzione per il fallimento di queste esperienze, che non può certo essere giustificato addebitando ai  suoi dirigenti una sottostimazione dell’obiettivo.È risaputo anche, che, per Lenin, l’internazionalismo proletario è l’ideologia e la politica della classe operaia e contemporaneamente l’antidoto al nazionalismo borghese; ma un’analisi ed una sintesi di queste percezioni-definizioni, in momenti in cui l’emergenza e l’improvvisazione sono la regola, verrà sempre rimandata ad un futuro che poi, per Vladimir Ilic,  non si è mai presentato. Sotto l’aspetto operativo le cose si sviluppano invece  più  profondamente. Nel periodo attorno al 1920, in cui Lenin è il massimo dirigente dello Stato Sovietico –che, in quanto Stato, nonostante le gravissime difficoltà,  può allocare risorse per obiettivi prima impensabili- alcuni alti quadri di comando della giovanissima “Armata rossa degli operai e dei contadini”, in particolare Michail Tuchacevskij[1], iniziano la realizzazione di una sorta di regolamento sul servizio campale per l’insurrezione armata. Tali quadri vedono cioè necessaria la fissazione delle principali caratteristiche politico-militari  della guerra di classe (civile), di cui distaccano e sistematizzano le profonde differenze tattiche e strategiche rispetto a quella imperialista. La dottrina operativa che ne deriva Tuchacevskji, è una serie di formule che si fondano sul postulato della deflagrazione di una guerra civile mondiale nell’immediato futuro con  conseguente strategia proletaria incentrata sul coordinamento e sul comando delle sue unità armate nazionali i cui responsabili devono essere quindi selezionati ed istruiti. In questo contesto, Tuchacevskji vede la funzione della IIIª Internazionale come promotore principale della preparazione di un esercito mondiale proletario, preparazione che può già iniziare ad essere concretamente realizzata a partire dal suo “stato maggiore supremo internazionale”. Lo stato maggiore, deve da subito –1920- analizzare le caratteristiche militari nazionali del nemico di classe, elaborare un piano di mobilitazione della classe operaia nei distinti paesi  ed attivare le condizioni per la creazione, nella Russia sovietica, di centri di addestramento militare ed accademie di guerra al fine di preparare un corpo di ufficiali rivoluzionari di tutte le nazionalità. Come si deduce da testimonianze e documenti, queste indicazioni vengono sostanzialmente accolte[2]. Le inevitabili forzature e semplificazioni che esse contengono, non sono però superate nell’unico teatro dove ciò deve  risultare possibile: nell’applicazione sul terreno.

Come si incaricano, tragicamente, di dimostrare le sconfitte dei forti movimenti rivoluzionari in Ungheria e in Baviera e  dei meno forti in Italia nel periodo 1919-20, seguite poi dalle sanguinose repressioni della stagione insurrezionale del 1923-24: in Germania (insurrezioni di Amburgo e della Ruhr), in Polonia (Cracovia), in Bulgaria (svariati distretti del Paese), in Estonia (Reval), per citare le principali.

Così, quest’accezione essenzialmente militare di “internazionalismo proletario” non acquista capacità di penetrazione finendo, rispetto alla sua iniziale proposta strategica, con l’implodere.

Questi fallimenti, che non avranno appello, indicano essenzialmente due cose interdipendenti:

 – l’accezione “militare” dell’internazionalismo proletario non è la premessa unificante che garantisce la presa del potere così come si è data in Russia;

– le classi subalterne assumo la lotta armata come strumento di cambiamento della loro realtà  di sfruttati, quando non vi sia altra alternativa praticabile.

 È esattamente in questo contesto, che realtà nazionali del capitale finanziario europeo vedono  nell’eliminazione delle garanzie civili della democrazia borghese una soluzione al conflitto di classe che sembra mettere concretamente in pericolo la loro egemonia: saranno così i movimenti fascisti, ovvero gli strumenti politico-terroristici da loro progettati ed applicati, che fermeranno definitivamente l’ondata rivoluzionaria in Europa.  1.2. Dal “Cominform” (1947) alla decade del Settanta.La disfatta del fascismo nella seconda guerra mondiale e la contemporanea crescita di forti movimenti popolari di liberazione nazionale nel Sud del mondo, disegnano uno scenario che potrebbe rendere possibile un nuovo internazionalismo proletario. Ma, come unico risultato concreto, il massimo che si ottiene è la fissazione “liturgica-tautologica” che ne viene data nei vari manuali politici circolanti nei paesi del blocco socialista. Da essi si evince che l’internazionalismo proletario è:  a) la conoscenza della comunanza e dell’unità degli interessi dei proletari di tutti i paesi e nazioni. Il senso di responsabilità in ogni distaccamento nazionale del movimento comunista internazionale per la sua attività di fronte al movimento mondiale di liberazione;b) il principio più importante delle mutue relazioni dei distaccamenti nazionali della classe operaia, dei partiti comunisti e dei paesi socialisti, la base della attività ideologica e politica dei partiti rivoluzionari marxisti-leninisti;g) la generazione teorica della lotta di emancipazione del proletariato e dell’esperienza del movimento comunista internazionale. Le “applicazioni pratiche” che si danno dei tre su scritti punti, prendono corpo e contenuti – per limitarci alla punta dell’iceberg, cioè a quelle strettamente militari- con i carri armati dell’Armata Rossa che nel 1953, 1956 e 1968 entrano rispettivamente in Berlino Est, in Ungheria, in Cecoslovacchia; con il cruento conflitto di frontiera cino-sovietico nel 1969, con l’omologo cambogiano-vietnamita nel 1978 e con l’invasione della Cina in Vietnam e dell’Unione Sovietica in Afghanistan nel 1979. Non è difficile convenire che l’internazionalismo proletario, indefinito nelle categorie teoriche e sempre abortito nella scorciatoia delle applicazioni, o dichiarate tali,  sul campo, rimane un tipo di energia politica in attesa di essere identificata nel laboratorio dei conflitti sociali. 2. “ ? ” Dalle implosioni di tentativi implementati in una fase storica definitivamente chiusa sintetizzata nel punto precedente, all’attualità, che ci vede lottare in sacche di resistenza frammentate ma vitali, la frattura è irriducibile. È superfluo, nello specifico nostro sottolineare l’evidente differenza qualitativa e quantitativa  tra questi due momenti –quello dei tentativi implosi del passato e quello dei percorsi da sviluppare qui ed ora- che di fatto giustapponiamo per rendere possibile un confronto ed una riflessione. Il punto interrogativo che a modo di titolo definisce questo paragrafo, vuole ancora rafforzare questa evidenza, ma, contemporaneamente innescare i preliminari di una proposta che è sussunta nel lemma “relazioni internazionali dal basso”. Proposta che nasce come componente di una iniziativa antagonista  sviluppata orizzontalmente e collettivamente sia sul campo che sul piano dell’analisi, e che vede nelle contraddizioni interimperialiste il motore degli accadimenti politici, economici e militari di oggi, ovvero delle logiche di terrore e di guerra che coprono il mondo. Logiche naturalmente interdipendenti, pensate soprattutto in funzione degli interessi del capitale finanziario statunitense, che utilizzano complessivamente la guerra guerreggiata vera e propria, la guerra culturale e la guerra ecologica, nell’accezioni più ampie di questi termini, come strumenti usuali e contemporaneamente  unici, atti a garantire la continuità di dominio e di sfruttamento. 2.1. Anticapitalismo e antimperialismo come componente resistenziale di “relazioni internazionali dal basso”La lotta dei movimenti rivoluzionari,  che si sviluppa essenzialmente nel Continente Latinoamericano ed è temporalmente concentrata -nella sua maggioranza- nelle decadi del Settanta e dell’Ottanta,  lascia una pratica di soggettivismo rivoluzionario di massa che va conosciuta e fatta propria. Non è secondario che il mezzo principale con cui tale pratica si esprime sia quello della lotta armata; ma essa è un mezzo e come tale non va né sottovalutato né sopravvalutato. La decisione di utilizzare tale mezzo viene presa, quasi ovunque, direttamente dalle masse popolari –anche contro le volontà di alcuni loro dirigenti; vedi i casi dei partiti comunisti latinoamericani- alle quali non è lasciata altra soluzione per rivendicare e conquistare i propri più elementari diritti. Il principale responsabile di non lasciare altre soluzioni alle lotte di emancipazione politica ed economica delle masse popolari, è l’imperialismo statunitense. In funzione di auto-proclamarsi il principale garante dell’ordine capitalista mondiale, esso progetta e realizza una complessa strategia fondata sul cosiddetto modello controinsurrezionale, che assume  distinte accezioni concrete in dipendenza dei differenti teatri su cui va ad operare[3]. In America Latina  le sue categorie ideologico-applicative sono incernierate sulla lotta contro il comunismo, sulla eliminazione fisica  del nemico interno ed infine sulla guerra di bassa intensità; l’alleato strategico dell’imperialismo nordamericano è rappresentato dalle differenti oligarchie nazionali, specialmente nella loro componente latifondista. In sintesi, il modello controinsurrezionale è una struttura di comando e controllo sociale che si sviluppa su due piani paralleli: nel primo viene resa visibile una realtà in qualche modo paragonabile alla formale democrazia occidentale; nel secondo viene pratica la tortura e l’assassinio di massa contro tutto ciò che viene ritenuto appoggio per la parte antagonista senza distinzione né d’età, né di sesso[4]. Nonostante le enormi risorse e la violenza illimitata utilizzate dall’imperialismo  contro i movimenti rivoluzionari latinoamericani, essi non saranno né sconfitti militarmente né cancellati politicamente; al contrario, anche in base all’urgente necessità “di pace” degli Stati Uniti che permetta loro di rastrellare –particolarmente in Centro america- risorse e mercati per contrastare la nascente Unione Europea, devono essere riconosciuti ed accettati internazionalmente cosa che, ad oggi, garantisce loro spazi di autonomia e visibilità. Contemporaneamente, il bilancio di queste esperienze decennali fissa nelle organizzazioni di classe due insegnamenti interdipendenti ed incancellabili: che la lotta anticapitalista ed antimperialista sono un tutto unico, un unico momento dello scontro sia nelle distinte realtà nazionali che nella totalità della “patria grande”, nel continente. L’esperienza di Cuba, pur nella sua distinta specificità, è alle altre essenzialmente equivalente. “relazioni internazionali dal basso” vedono questi spazi di autonomia e visibilità conquistate dai movimenti rivoluzionari, come realtà strategicamente importanti, da valorizzare fortemente, da collegare orizzontalmente e collettivamente alle organizzazioni antagoniste che ci vedono presenti, fonti di azioni da sviluppare con reciproche assunzioni di responsabilità resistenziale e propositiva. Sulle basi delle due comuni categorie resistenziali dell’anticapitalismo e dell’antimperialismo, possono svilupparsi orizzontalmente percorsi di scambi relativi alle esperienze di lotte politiche e sindacali, comprese le accezioni dei fronti ecologici e culturali, in funzione di ricadute concrete nei rispettivi scenari operativi. Sulle assunzioni di responsabilità, vi è da parte nostra un segmento aggiuntivo di fronte resistenziale derivato da tenere: quello dell’anticooperazione sia di marca governativa che “oennegista”[5]. Compito di “relazioni internazionali dal basso” è anche quello di sviluppare una critica sui metodi e sui contenuti della cooperazione e del relativo volontariato per staccare quantitativamente e qualitativamente soggettività che credono in maniera convinta di aiutare i propri “più sfortunati” simili ad emanciparsi mentre, al contrario, perpetuano le condizioni politiche e materiali per l’esistenza della loro “sfortuna”. Queste,in sintesi, le categorie resistenziali qualificanti “relazioni internazionali dal basso”. Ma la resistenza, per quanto insostituibile, non significa superamento. 2.2. “Qui ed ora” come componente propositiva di “relazioni internazionali dal basso”È essenzialmente sul qui e ora che “relazioni internazionali dal basso” considerano l’America Latina, come già in parte si può evincere dal punto 2.1., come l’espressione più alta e propositiva della lotta contro il fondamentalismo economico del nuovo ordine imperialista. I movimenti sociali in Argentina, Brasile, Colombia, Messico e Venezuela hanno creato senza dubbio una nuova atmosfera politica. I loro popoli chiedono cambi profondi e le loro realtà di classe organizzate iniziano a praticare, tentandone una penetrazione nazionale e sovranazionale, nuovi rapporti di produzione e di scambio. Caso analogo, anche se caratterizzato dalla peculiarità della loro genesi politica, si ritrova nelle strutture orizzontali generatesi all’interno delle ex-guerriglie del Salvador e del Guatemala, ma anche in Honduras e soprattutto in Nicaragua, nell’Area di Proprietà dei Lavoratori (APT), sopravvivente dinamico e deburocratizzato dell’esperienza delle cooperative sandiniste degli anni Ottanta; peculiarità che per il Centro America è causata essenzialmente dalla guerra imperialista di bassa intensità la quale ha di fatto obbligato le masse popolari alla pratica dell’autogestione ed all’incremento della soggettività rivoluzionaria di massa che hanno permesso di risolvere non solo i problemi militari della guerra di guerriglia, ma anche quelli legati alle nuove necessità di una economia popolare delle zone controllate.  Su quanto scritto nel presente punto, vale la pena tentare due riflessioni distinte ed indipendenti:– nella prima, di carattere assolutamente generale, considerando come sia un dato acquisito che l’umanità si ponga in concreto quei problemi che può risolvere solo quando esistano le condizioni materiali per il loro superamento, si vuole sottolineare come risulti parimenti un dato acquisito che l’analisi delle condizioni antagoniste esistenti nella forma economica predominante  possano fornire previsioni sulle forme di lotta del nuovo rispetto al vecchio; basterà ricordare come il rapporto capitalistico fondamentale, quello cioè che dà origine al capitale non come equivalenza tecnica ma come rapporto sociale di produzione, si manifesti, conviva e s’infiltri nel sistema economico feudale-corporativo con significato antagonista rispetto alle sue forme di proprietà[6]; che pensa di poter superare in funzione di una nuova economia fondata sulla prospettiva d’incremento esponenziale della produttività e dello sfruttamento del lavoro – nella seconda, si vuole invece sottolineare come le decennali lotte essenzialmente politico-militari dei movimenti rivoluzionari latino americani abbiano prodotto realtà di classe organizzate che, attraverso il bilancio finale, certamente non positivo, delle grandi linee strategiche e tattiche teorizzate ed utilizzate per la conquista del potere, hanno derivato la convinzione della loro attuale inadeguatezza congiuntamente agli strumenti verticali, partito e sindacato, che dovevano garantirne la realizzazione. Naturalmente gli zapatisti, anche se forse non per primi, hanno contribuito alle più lucide, articolate e conseguenti analisi-azioni su queste strategici rapporti. 

Il fatto dunque, che, in questa area geopolitica ad alta conflittualità sociale, stiano  affacciandosi nella società civile, in maniera cosciente e storicamente correlata, pratiche concrete di nuove forme di produzione, di scambio e di complessiva autogestione, accompagnate da tentativi di sistematizzazione dottrinaria, fa proporre a “relazioni internazionali dal basso” di non sopravvalutare questo “nuovo” che sta infiltrandosi nell’attuale globalizzante modello economico, ma neppure di ignorarlo. Ugualmente per le nuove forme organizzative di lotta che tendono nell’attualità al superamento dello strumento partito-sindacato così come storicamente si è dato all’interno della sinistra di origine comunista.

Sulle basi di queste due comuni e complessive categorie propositive di valore economico e politico,   possono svilupparsi orizzontalmente percorsi con differenti obiettivi. 

L’esperienza delle Brigate di Lavoro in Guatemala ed a Cuba è stata una prima risposta –pur insufficiente, superficiale e limitata- per l’approccio al problema. Naturalmente la “conoscenza” –anche se diretta ed orizzontale- non deve fermarsi all’aspetto di acquisizione e contributo teorici, che pure vanno implementati; vogliamo cioè sottolineare che le ricadute concrete derivabili dall’esperienze realizzate nel quadro di “relazioni internazionali dal basso”,  la loro componente propositiva, hanno spazi qualitativi di sviluppo anche a livello di organizzazione territoriale e di quartiere qui da noi, benché non possano essere  la più o meno semplice riproposizione  di quanto visto altrove.  Un primo tentativo di risposta, che è in atto, su questo tema fondamentale viene appunto dall’esperienza delle Brigate di Lavoro in Guatemala ed a Cuba. “relazioni internazionali dal basso” hanno assunto la responsabilità di sviluppare un percorso orizzontale e collettivo che dia risposte, in termini di concreta realizzazione di progetti, nel segno della solidarietà da lavoratore a lavoratore, fuori da qualunque condizionamento e strumentalizzazione istituzionale, muovendosi in forma propositiva nell’ambito dell’anticooperazione. I contenuti, i tempi ed i momenti di aggregazione di questo tentativo di risposta sono l’oggetto delle presenti  e future iniziative che il Movimento Antagonista Toscano e “comunicazione antagonista” stanno sviluppando sul territorio.



[1] M. Tuchacevskij (1893-1938?) sottotenente dell’esercito zarista, si mette a disposizione dei bolscevichi già dal 1917. Maresciallo dell’Unione Sovietica, ancorché giovanissimo, nel 1935, è riconosciuto come uno dei maggiori teorici militari del suo tempo; comprende, forse per primo, l’importanza dell’uso autonomo delle forze corazzate e paracadutate e della cooperazione interarma. È tra i principali estensori dei successivi regolamenti sul servizio campale dell’Armata Rossa, dal 1919 sino alla sua morte. Fucilato senza processo nel periodo delle “purghe” staliniane.

[2] Fondamentalmente: la testimonianza di Erich Wollenberg, capo militare (Walter) dell’insurrezione comunista della Ruhr del 1923, poi direttore della sezione militare dell’Istituto Marx-Engels di Mosca, ed il testo di J. Erickson “Storia dello Stato Maggiore sovietico”, Feltrinelli 1963

[3] Per l’Italia, è interessante l’analisi operata nel presente numero sulla strage di Portella delle Ginestre

[4] Sul “modus operandi” del modello controinsurrezionale, che arriverà sino al genocidio, rimandiamo anche al documentario “GUATEMALA” prodotto da “comunicazione antagonista”, Incidencia Democrática e Centro di Documentazione di Pistoia

[5] delle OnGs; cioè Organizzazioni non Governative abilitate alla cooperazione con i paesi del sud del mondo che in generale svolgono compiti funzionali alla riproduzione dei rapporti di dominio e depredazione del Nord verso il Sud, come sembrerebbe elementarmente deducibile. Prove più che evidenti: Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, …

[6]essenzialmente dei beni strumentali di proprietà della terra e della proprietà corporativo-artigianale