E’ finita l’epoca delle ONG – Lucca 5 e 6 novembre 2005 – Gli interventi

Intervento al seminario di Giorgio Ferrari di Rossovivo

La società civile e la guerra

In occasione del Montreal International Forum dello scorso giugno (massima espressione dell’associazionismo non governativo), il segretario dell’Onu Kofi Annan definì la società civile come la nuova superpotenza mondiale. Per altri versi e con maggior valenza concettuale, la recente Costituzione europea, introducendo il principio della democrazia partecipativa (Titolo VI, Artt. I-47; I-50) riconosce alla società civile e alle sue associazioni il ruolo di interlocutore delle istituzioni.

Ma che cos’è la "società civile"? La definizione più semplice che ne abbiamo è quella di comprendervi tutto ciò (o quasi) che non fa parte dello Stato, che non opera come lo Stato in quanto espressione di diritti naturali dell’individuo e di gruppi sociali (coesistenti, pre-esistenti o comunque indipendenti dallo Stato) che come tali limitano e restringono la sfera del potere politico.

Conseguentemente ne deriva una prima idea di società civile contrapposta alle istituzioni politiche dove la sfera delle relazioni private (tra singoli o gruppi di individui) tende a circoscrivere l’ambito dello Stato sottraendogli progressivamente competenze e funzioni, e stabilendo –in via di principio- un rapporto di alterità rispetto alla sfera tradizionale della politica. Secondo un’altra interpretazione, in linea con le attuali teorie sistemiche sulla società globale, la società civile è l’ambito privilegiato per la formulazione di domande indirizzate alla politica e a cui la politica dovrebbe fornire risposta in omaggio a quel circuito "virtuoso" che, facendo perno sul concetto di governabilità, dovrebbe mantenere in equilibrio l’amministrazione delle società complesse.

Ci troviamo di fronte a formulazioni ricavate in negativo, cioè la società civile non è lo stato, non è la politica, ma non è nemmeno il mondo del lavoro e quello imprenditoriale definiti comunemente parti sociali, a cui si attribuiscono altri e diversi compiti. Di qui l’idea, (mai compiutamente espressa in verità), che la società civile abbia un ruolo di "terzietà", cioè di soggetto terzo rispetto ai protagonisti principali che occupano la scena sociale: capitale, lavoro, stato.

Ma per capire meglio la consistenza e l’importanza riconosciuta alla società civile, è utile accennare alle sue origini storico-filosofiche.

Nella tradizione giusnaturalistica (Locke, Russeau) la società civile è l’antitesi della società naturale e si costituisce nel momento in cui gli individui decidono di uscire da questo "stato di natura" dandosi di comune accordo delle regole. C’è qui in embrione l’idea di stato in quanto società "artificiale" che si eleva al di sopra dei rapporti naturali, ma nel momento in cui questa concezione pre-moderna cederà il posto alla concezione dello stato come entità separata, la connotazione di società civile sarà modificata. Successivamente Hegel, per quanto abbia lavorato a lungo alla sistemazione della filosofia pratica (cioè l’etica), non riuscirà a concepire la società civile se non come categoria residua dove comprendere tutto ciò che non poteva essere rappresentato nei due aspetti fondanti della società –la famiglia e lo Stato- dibattuti fin dai tempi di Aristotele. La conclusione, parziale e controversa, fu quella di concepire la società civile come momento giuridico amministrativo delle relazioni fra gli uomini, mentre lo Stato vero e proprio avrebbe rappresentato il momento etico-politico con cui il cittadino si sarebbe dovuto identificare intimamente e totalmente. Allo Stato, dunque, il compito di far applicare le leggi, dirimere i conflitti di interesse e imporre il diritto, alla società civile il compito di provvedere all’educazione, l’assistenza ai poveri, la ripartizione del lavoro.

Sarà Marx a riconsiderare quest’interpretazione, da cui in ogni caso trasse spunto, sotto il profilo –tuttora valido- di interdipendenza della società civile dallo Stato o sistema politico determinato, riconducendo l’analisi della società civile nell’ambito dell’economia politica proprio in quanto le istituzioni politiche si basano sui rapporti materiali dell’esistenza dai quali prende origine la società civile.

"Lo Stato moderno ha come base naturale la società civile (che è il luogo dei rapporti economici, ndr), l’uomo della società civile, cioè l’uomo indipendente, unito all’altro uomo solo con il legame dell’interesse privato e della necessità naturale e incosciente" (Marx – Engels, La sacra famiglia).

Ma la società civile di Marx -nelle condizioni date dalla modernità- è il frutto dell’emancipazione politica della borghesia liberatasi dai vincoli dello Stato assoluto per imporre i propri interessi di classe, per cui la società civile non può non intendersi che come una delle manifestazioni della società borghese.

Indubbiamente più confacente all’idea corrente di società civile quest’analisi di Marx, ma non ancora del tutto esauriente riguardo al perché della rilevanza assegnata a questa neodefinita superpotenza mondiale. In altre parole: perché la borghesia (e con essa tutta l’infinita schiera di istituzioni borghesi, più o meno pubbliche, più o meno in relazione con lo Stato) dovrebbe rinunciare alle sue prerogative in favore di un’entità indistinta e sfuggente come la società civile? E’ la società civile che avanza dentro la società politica fino a svuotarla di senso, o questa derubricazione funzionale delle istituzioni che vediamo accompagnarsi alla crescita della società civile è uno stratagemma ideologico della borghesia?

Uno spunto ulteriore ci viene da Gramsci e dalla sua attenzione all’iniziativa che le classi dominanti rivolgono alla sfera ideologica o sovrastutturale.

Nell’ambito della sua analisi sul ruolo degli intellettuali nella società, Gramsci approfondisce il concetto di società civile fino a concepirlo come momento privilegiato in cui si manifesta l’egemonia delle classi dominanti. L’ambito della società civile non è solo la base materiale (dunque struttura) dei rapporti economici su cui si fonda la società di classe, ma è anche il momento in cui la classe dominante sviluppa la formazione del consenso e dunque luogo di sperimentazione/affermazione dell’ideologia (sovrastruttura). Di più Gramsci arriva a definire che, oltre il dominio diretto esercitato attraverso il governo giuridico della società, il ruolo egemone della borghesia si esplica su due livelli: quello della "società politica" con tutte le sue articolazioni "pubbliche", e quello della "società civile" costituita dall’insieme di organismi comunemente detti "privati" (oggi si direbbe non governativi).

L’elemento di novità che Gramsci inserisce in quest’analisi è quello per cui la società civile non è solo il luogo dove si formano le relazioni economiche (Marx), ma è anche momento etico-politico in cui la classe dominante ricerca -attraverso l’etica- la formazione del consenso e dunque esercita la sua egemonia.

Ecco dunque che l’etica viene ad essere la chiave di lettura di questa odierna riproposizione della società civile come variante alla società politica, allo stato e alle istituzioni, operando uno spostamento deciso della contraddizione dal piano strutturale a quello della sovrastruttura.

Diversi e intrecciati gli elementi a sostegno di questo passaggio. Lo Stato è reso inefficiente dalla società politica (ad esempio per l’asservimento ai partiti) la quale è incapace di fornire risposte adeguate ai problemi dell’umanità (fame, povertà, etc): ne consegue che tutto il complesso delle istituzioni tradizionali e della funzione pubblica sconta un deficit di moralità.

L’unica salvezza risiede in una "società etica". E’ questo il messaggio che viene dalla società civile e la risposta non si è fatta attendere: negli ultimi anni si è sviluppato il settore della finanza etica in cui operano banche (etiche) che stabiliscono una graduatoria di comportamento etico di società quotate in borsa. Queste società entrano a far parte di fondi etici –gestiti dalle banche- che vengono consigliati ai risparmiatori. A loro volta le società di capitali si sono date un codice etico a garanzia dei dipendenti, degli investitori, dei clienti (in linguaggio specialistico gli stakeholders). Parallelamente hanno preso piede concetti –e con essi attività conseguenti- come la responsabilità sociale delle imprese (a cui l’Unione Europea dedica uno specifico capitolo di finanziamento), il commercio equo e solidale, lo sviluppo sostenibile, tutte improntate all’etica.

 

Gli attori della società civile

L’espressione principale e più diffusa della società civile è rappresentata dalle Organizzazioni Non governative (Ong). Secondo l’Onu si contano attualmente circa 40.000 Ong di livello internazionale mentre altre centinaia di migliaia operano a livello di singola nazione (nella sola Cina secondo l’Onu sono circa 280.000) e spesso costituiscono l’ossatura di quelle attività cosiddette di "terzo settore" sfuggite alla privatizzazione neoliberista, o comunque dismesse e non più esercitate dallo Stato.

Secondo un lessico mediatico che si rifà alla dizione anglosassone di Ong (Ngo Non governmental organization) esistono le Ingo (International Ngo); le Bingo (Business International Ngo); le Ringo (Religious international Ngo); le Engo (Environmental Ngo per l’ambiente); le Gongo (Government operated Ngo, cioè gestite da organismi governativi) e le indefinibili Quango (Quasi Ngo).

I finanziamenti provengono da fondazioni private, da istituzioni internazionali (Banca mondiale, Unione Europea, Banco interamericano di sviluppo) e dalle singole nazioni. Nel 2003 i finanziamenti degli soli organismi internazionali verso i paesi poveri assommavano a 69 miliardi di dollari di cui almeno il 35% è stato gestito dalle Ong. Secondo l’Ecosoc (Economic and Social Committee) che gestisce in sede Onu il capitolo dell’assistenza allo sviluppo, l’attività delle Ong è al secondo posto in termini di trasferimenti netti di denaro verso i paesi poveri.

Molte Ong si sono raggruppate in consorzi, secondo il settore di intervento come ad esempio:

– Green 8, fondato nel 1990, che raggruppa le maggiori otto associazioni ambientaliste con più di 20 milioni di iscritti: Greenpeace Europa, WWF European Policy Unit, Birdlife International, Amici della terra, Climate Network Europe, European Environmental Bureau, European Federation for Transport and Environment, International Friends of Nature;

– European Public Health Alliance (Epha) creato nel 1993 che raggruppa circa novanta organizzazioni operanti nel settore della salute;

– Social Platform, creato nel 1995, è un coordinamento che raggruppa 38 federazioni di Ngo in rappresentanza di 1700 Ong che operano nel settore dell’esclusione sociale e delle minoranze. Tra queste ci sono: Autism Europe, International Lesbian and Gay Association, Atd Fourth World, International Planned Parenthood Federation, European Confederation of Workers’ Co-operatives, Social Co-operatives and Participative Enterprises, International Council on Social Welfare;

– Concord, operante dal 2003, è un consorzio che rappresenta più di 1200 Ong raggruppate in 18 coordinamenti nazionali e 17 networks internazionali tra cui: ActionAid, Eurostep, Caritas, Save the Children, Voice, Solidar, International Planned Parenthood Federation, che a loro volta comprendono grandi organizzazioni come la Croce Rossa, Care o Oxfam.

Esistono poi forme di coordinamento su tematiche specifiche come il Fewer (Forum su Early warning e early response, che si occupa della prevenzione dei conflitti e degli interventi immediati), oppure Congo (Conferenza delle Ong, creata nel 1948 con lo scopo di coinvolgere le Ong nelle attività dell’Onu). Solo degli esempi per dare un’idea della gamma di attività e della vastità di questo fenomeno che richiederebbe, ovviamente, molto più di queste poche righe.

Più utile tentare alcune riflessioni sul comportamento delle Ong, o per lo meno sulle linee di condotta che questo vasto settore va assumendo, con una premessa: che quanto riportato a commento non può considerarsi valido per la generalità delle Ong essendovi fra queste differenze -a volte marcate- di valutazione e comportamento rispetto alle problematiche in gioco.

 

Etica ed economia

E’ indubbio che il settore delle Ong – la cui nascita è di vecchia data- si sia sviluppato fortemente negli anni ’90 con l’affermarsi delle politiche neoliberiste. La privatizzazione di attività riservate allo Stato o gestite in forme para-statali, contemporaneamente alla liberalizzazione dei mercati (nazionali ed internazionali) offrivano la "base" naturale di intervento per l’associazionismo non governativo: ciò di cui non si occupava più lo Stato veniva messo a profitto (privatizzato) e ciò che non era privatizzato poteva divenire appannaggio del "no profit". A monte di questo passaggio esisteva già una diffusa critica (ad esempio nel settore degli aiuti internazionali) di come lo Stato gestiva determinate attività. Burocratismo, inefficienza, corruzione travolsero i programmi di aiuto e cooperazione ancora in vigore alla fine degli anni ’80 in molte nazioni. Chi non ricorda la Cooperazione Italiana e lo scandalo della metropolitana di Lima in cui furono coinvolti i partiti politici? Insieme allo Stato ne usciva vergognosamente anche la società politica a cui la "società civile" chiedeva un deciso passo indietro.

Cessarono dunque i grandi interventi decisi per accordi bilaterali stato donatore-stato ricevente tipicamente rivolti ai settori delle infrastrutture (viabilità, energia, trasporti) per due ordini di motivi: da un lato veniva meno la possibilità di finanziare opere di infrastruttura perché anche nei paesi in via di sviluppo si andavano privatizzando tutti i servizi, dall’altro si ripartivano i fondi a disposizione per lo sviluppo in progetti "mirati" affidati a piccole entità (specie se Ong) che, considerata la loro natura no profit e la loro apoliticità, garantivano una gestione etica ed economica dei progetti. Di più, il contenuto etico della rinnovata attività di aiuto internazionale (per lo sviluppo, umanitario, educativo o sanitario) veniva esaltato dal fatto che i finanziamenti non erano più erogati in modo preponderante dagli Stati-nazione, ma dagli organismi internazionali; inoltre i progetti non erano decisi dall’alto, ma erano frutto di collaborazione tra Ong locali e non. Tra il 1980 e il 1998 la sola Banca Mondiale ha aumentato dell’800% i fondi per la ricostruzione (bellica o per eventi catastrofici) a cui vanno aggiunti tutti gli altri capitoli di finanziamento a testimonianza che la gran parte dei fondi erogati dai paesi ricchi (donatori privati a parte) sono ormai canalizzati attraverso gli organismi internazionali.

L’aiuto portato attraverso le Ong, proprio perché basato sul volontarismo e su valori etici, doveva portare ad una maggiore efficacia degli interventi consentendo anche alle Ong di svolgere una azione di monitoraggio sull’attività di altri organismi coinvolti nel processo. Ma questa prima fase di moltiplicazione dei progetti e delle attività improntata al volontarismo mise in luce una dispersione delle risorse economiche ed una sovrapposizione di attività fra le Ong. Si richiese dunque, specie da parte dei donatori privati, maggiore efficienza e coordinazione negli interventi con l’inevitabile introduzione di tecniche manageriali, di concentrazione organizzativa (consorzi di Ong), in definitiva di professionismo, affinché il progetto finanziato fosse gestito con criteri impresariali. Si è arrivati al punto che l’Oecd (l’organizzazione per lo sviluppo economico e la cooperazione) ha elaborato dettagliate procedure (Guidelines) per l’individuazione, gestione e finanziamento dei progetti, molto simili a quelle che ciascuna impresa multinazionale adotta per la sua attività.

Ciononostante uno studio della Ong "Actionaid international" relativo all’anno 2003 intitolato "Real Aid" calcola che il trasferimento di aiuti economici dai paesi ricchi ai paesi poveri non corrisponde affatto a quanto dichiarato dai governi o dagli organismi internazionali. Per ogni 100 dollari di aiuto si perdono: 14 dollari per costi amministrativi e di gestione; 7 dollari per errori nella definizione dei progetti; 14 dollari di costi contabilizzati come riduzione del debito dei paesi poveri; 2 dollari per costi inerenti ai rifugiati politici dei paesi beneficiari e 24 dollari per acquisizione di prodotti e servizi che i paesi poveri sono costretti ad acquisire da quelli ricchi. Pur se lo studio non specifica quanto incide il costo delle Ong e se questo sia compreso nelle voci sopra elencate, risulta che dei 69 miliardi di dollari dichiarati come versati dai paesi ricchi nel 2003, solo 27 sono presumibilmente arrivati a destinazione mentre nello stesso anno l’ammontare del flusso finanziario e commerciale dai paesi poveri verso i paesi ricchi è stato di 310 miliardi di dollari, a cui va sommata una perdita per danni ecologici (causati dai paesi ricchi) stimata in 400 miliardi di dollari.

La situazione attuale, dal punto di vista della economicità, ripropone quindi gli stessi inconvenienti che si volevano evitare proprio con l’affidamento alle Ong della gestione degli aiuti.

Quanto agli aspetti etici della questione l’introduzione del professionismo e la sovradeterminazione dell’effetto immagine sui risultati concreti, ci da un profilo delle Ong davvero sconcertante.

Un primo paradosso consiste nel fatto che molte di queste Ong impiegano operatori che guadagnano più dei ministri del paese in cui operano ed hanno bilanci superiori a quello di qualsiasi ministero locale. Come conseguenza si produce un innalzamento immediato dei prezzi di abitazioni ed alimenti con un effetto di trascinamento su tutti i generi di prima necessità, non più alla portata della popolazione locale. Inoltre, come ha rilevato la stessa Onu, la presenza di operatori internazionali con forti disponibilità di denaro, incoraggia azioni disperate di sopravvivenza come la prostituzione tra le giovani donne e con essa la proliferazione di malattie infettive a cominciare dall’Aids.

Queste contraddizioni non sembrano sanabili neanche con il maggior coinvolgimento di Ong locali rispetto a quelle internazionali, perché la pretesa professionalizzazione delle attività di aiuto oltre a indurre la spoliticizzazione degli interventi, favorisce la creazione di un ceto sociale privilegiato e amorfo dalle attitudini non troppo dissimili da quelle attribuite al ceto politico.

Scrive in proposito Claudio Mazzocchi dell’Osservatorio Balcani: " […] nella maggioranza dei casi ci troviamo di fronte ad associazioni che si dichiarano impolitiche per il fatto molto più semplice di non avere nessuna idea di cambiamento e di progresso rispetto alla società in cui vivono. L’associazionismo si configura quindi come un’occasione di lavoro nel mercato dell’assistenza sociale, che anche in Albania, come in altri paesi dei Balcani e dell’est europeo, sta creando un funzionariato del welfare che si rapporta col potere politico locale non in base ad un progetto di trasformazione sociale, ma in funzione lobbistica, per ottenere favori, finanziamenti e sponsorship nei confronti dei grandi donatori internazionali". (01.02.2002)

Altrettanto sconcertante è la crescente realizzazione di partnership con le imprese private. Al vertice di Johannesburg Greepeace raggiunse un accordo con la Shell per la gestione di una piattaforma petrolifera in nome (manco a dirlo!) dello sviluppo sostenibile. Poi fu la volta della Coca Cola impegnata in campagne promosse da diverse Ong sul tema dell’Aids e in Indonesia per creare centri di lettura per la gioventù; Rainforest Alliance (una Ong impegnata nella protezione delle foreste) in associazione con i "bananeros" di Chiquita; ancora Greepeace con Innogy (società elettrica inglese) hanno dato vita ad un marchio di bevande per sostenere lo sviluppo dell’energia eolica; il Wwf lavora da tempo con Unilever (uno dei marchi multinazionali più infami) per creare il Consiglio per l’assistenza del mare, con Hsbc (Hong-Kong Shangai Bank Corporation) per finanziare progetti di salvaguardia delle acque potabili; Hewlett Packard partecipa con Accion International, Freedom from Hunger, Grameen Foundation e Usaid (agenzia Usa per lo sviluppo) ad un consorzio per il microcredito in Uganda; Volvo automobili, Itt Flight, Vanisco, Procter&Gamble insieme a Wwf e Mandag Morgen (Svezia) per attività congiunte a favore dello sviluppo sostenibile; Chevron e Pact (Usa) in Angola per lo "sviluppo della società civile" o Citibank e Pact in Vietnam per il microcredito.

 

Finché c’è guerra… c’è speranza

L’aspetto di maggiore risonanza dell’attività delle Ong è senza dubbio quello legato ai conflitti. Agli inizi degli anni ’90 questo intervento era improntato al criterio-guida della "responsabilità umanitaria" articolato in quattro momenti: umanità (salvare la vita); imparzialità (agire solo sulla base della necessità senza discriminare le popolazioni coinvolte); neutralità (agire in modo da non favorire nessuna parte in conflitto); indipendenza (autonomia degli scopi umanitari dagli aspetti politici, economici o militari che altre entità possono manifestare nelle aree interessate dall’intervento).

Questa sorta di codice di condotta sintetizzava in qualche modo ciò che la società civile richiedeva agli operatori umanitari, quasi a marcare la differenza con la società politica (e militare), loro sì, veri responsabili delle guerre. Un intervento "riparatore" insomma, che potesse lenire torti o danni arrecati direttamente o indirettamente dai paesi ricchi.

L’apice di questo comportamento fu toccato dopo la "guerra umanitaria" nella ex Jugoslavia dove si riversarono miliardi di dollari di aiuti e agirono migliaia di Ong (oltre 600 nella sola Bosnia). Ciononostante il bilancio tracciato oggi da organizzazioni decisamente moderate come l’Usip (United States Institution for peace) e Eccp (European center for conflict prevention), lamenta il mancato obiettivo della riconciliazione fra le parti a causa dell’uso politico dei fondi messi a disposizione che in alcuni casi è sconfinato persino in episodi di corruzione (missione Arcobaleno) o in traffici di armi a favore di una parte belligerante, come nel caso dell’Uck, mentre assai poco è stato fatto per riparare i danni provocati dai bombardamenti Nato in Serbia (l’esplosione del petrolchimico di Panchevo ad esempio, ha causato danni ambientali e sanitari di proporzioni enormi).

Da quella esperienza si è fatta strada l’idea che gli interventi umanitari dovessero essere orientati di più alla prevenzione dei conflitti attraverso quelle attività di peacekeeper e peacebuilding (portare pace e costruire pace) caldeggiate da Onu ed Unione Europea e a cui si dedicano numerosi organismi specializzati come Usip, Eccp, Gppac (Global partnership for the prevention of armed conflict), Csis (Center for strategic and international study), Igc (International Crisis group) oltre, ovviamente, ad innumerevoli Ong. Tema attualissimo questo della prevenzione che vede impegnate Onu, Unione Europea ed Ong nella ricerca di forme di collaborazione permanente per la gestione complessiva dei conflitti. Solo nel 2005 si contano: un convegno organizzato dall’Eplo (European peacebuilding liason office che raggruppa numerose Ong; il forum internazionale di Montreal; la conferenza Ong/Dpi (Department of public information dell’Onu), oltre a tutte le iniziative legate agli obiettivi del Millennium goal, cioè del pacchetto di aiuti discussi all’ultimo vertice dei paesi più industrializzati nello scorso settembre.

La prevenzione dunque è la nuova frontiera che la società civile ha stabilito rispetto ai conflitti, e non c’è dubbio che un’azione preventiva porti con sé un maggior contenuto di eticità. Ma per quanto sia improntata alle migliori intenzioni della società civile, un’attività di prevenzione non può non tener conto delle condizioni di violento contrasto che si presentano nella realtà e perciò deve necessariamente accompagnarsi ad una presenza armata che significa sicurezza per le popolazioni civili interessate dal conflitto e per gli operatori umanitari, sicurezza che può essere fornita solo da un esercito e/o da corpi di polizia.

Qui si apre lo scenario odierno della situazione internazionale con i suoi stridenti contrasti. Da un lato c’è il problema che i maggiori sostenitori della prevenzione (l’Onu e l’Unione Europea) non dispongono di un esercito proprio, e d’altra parte gli Usa –che hanno forze militari dislocate in tutto il mondo- non concordano con gli altri due nell’approccio alla risoluzione dei conflitti, come si è visto con la guerra in Iraq. All’interno di questo contrasto internazionale, che ha messo in luce la crisi irreversibile delle Nazioni Unite, operano le contraddizioni tra aspetti militari e civili del peacekeeping, tra Ong e corpi militari che non sempre sono quelli degli stati nazionali.

Nella Conferenza Ong/Dpi svoltasi a New York lo scorso settembre, il tema della sicurezza collettiva è stato definito come una priorità per la società civile e l’Onu si è impegnata a creare una specifica Commissione di peacebuilding che si occupi degli aspetti post conflitto armato. Le Ong dal loro punto di vista vorrebbero la costituzione di un forum permanente Onu/Ong ed ottenere dagli stati membri e dalla stessa Onu il mandato di proteggere le popolazioni. Ma la logica della prevenzione, che ad esempio dovrebbe sviluppare al massimo le attività di preallarme (Early warning), non riesce a superare lo scoglio oggettivo della sicurezza che fa perno sulla risposta rapida o di pronto intervento (Early response), e perciò l’impeto a prevenire le guerre resta inevitabilmente circoscritto in un ambito reattivo che inizia comunque dopo lo scoppio di un conflitto.

Nel tentativo di superare questa impasse si sono avviate riflessioni e ricerche intorno al concetto di difesa civile, di non violenza pragmatica (che non esclude l’uso della forza) di "interventismo" pacifico delle organizzazioni umanitarie. Il primo lavoro organico sul tema della difesa civile è stato il libro di Gene Sharp del 1990: "Civilian based defence: a post military weapons system" che nonostante il titolo tutto sommato rassicurante, sviluppa un concetto aggressivo di difesa civile. Più caute le tendenze europee che mirano a creare sinergie tra aspetti umanitari e militari, dei quali non si può fare a meno perché, come sostiene Hugo Slim professore di scienze umanitarie ad Oxford, "il mondo ha bisogno di buoni eserciti e le Ong devono evitare giudizi sommari verso i soldati, perché all’occorrenza essi possono comportarsi in modo umanitario".

In Italia opera da qualche anno un Centro studi difesa civile (Csdc) in collaborazione con il Ministero affari esteri, con quello della Difesa e con diverse Ong che tenta un approccio pragmatico al tema del peacekeeping non armato, ma che accetta l’uso della forza a tutela degli aspetti di difesa immediata delle popolazioni. Nel 2004 è stata costituita una Commissione Nazionale di difesa civile non armata e non violenta, presso la Presidenza del Consiglio, Ufficio Civile, con lo scopo di creare un campo di discussione tra Ong, Istituzioni e mondo militare e di addestrare i 40.000 addetti/anno che svolgono un servizio civile. Esponenti di questa linea di tendenza –come Antonino Drago e Francesco Tullio- sostengono che bisogna stabilire una credibile strategia di risposta alle sollecitazioni violente della società e che essa va ricercata nel dialogo della Difesa civile (società civile) con le forze armate "alle quali spetta il compito più delicato e rischioso, quello della gestione della forza contro la violenza senza scadere nella violenza stessa. Alla Difesa Civile compete la promozione e la costruzione di istituzioni mondiali compiutamente democratiche, e la difesa delle popolazioni in zone di crisi, attraverso interventi pacifici di prevenzione e interposizione". (Francesco Tullio, Centro interuniversitario per la pace).

Dunque la società civile, nelle sue varie articolazioni, lega il concetto di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace, al concetto di sicurezza (anche armata) da realizzarsi entro un ordine internazionale condiviso e concordato. Ma il settore della sicurezza che si è sviluppato nel mondo opera secondo criteri di profitto, primo fra tutti quello della privatizzazione delle attività militari o paramilitari. Si calcola che oggi vi siano circa 1.700.00 uomini in armi impiegati in attività di guerra o polizia. Uno studio della Ong International alert li suddivide in: mercenari veri e propri; compagnie private militari (come Executive Outcomes (Eo) o Sandline International); compagnie di sicurezza private con compiti di polizia (come DynCorp, Caci International, Titan Corporation). I soli Stati uniti impiegano attualmente più di 600.000 contractors in diversi teatri di operazione per un costo di 33 miliardi di dollari, ma il business globale della sicurezza è molto più vasto: nel 1990 valeva circa 56 miliardi di dollari e nel 2004 ha raggiunto la cifra di 200 milirdi di dollari con un tasso di incremento previsto del 7% annuo. Tra i suoi clienti non vi sono solo gli stati nazionali o le grandi corporation, ma anche istituzioni come l’Onu e molte Ong che devono proteggere il proprio personale; in questo modo diventa difficile discernere tra azione non violenta di peacekeeping e pacificazione forzata imposta con le armi, tra l’etica dell’intervento umanitario e il business che prospera intorno ai conflitti. Nel tentativo di superare questo evidente contrasto, si va facendo strada l’idea che siano delle Ong specializzate ad elaborare codici di condotta per i corpi armati che operano nella sicurezza e addestrino i loro componenti dal punto di vista dei diritti umani e dell’etica.

 

Il lato oscuro delle Ong

Che questa contaminazione tra Ong e apparati di sicurezza sia già in atto ce lo confermano Umberto Zona e Mauro Bulgarelli ("Il marketing umanitario. Mercenari: il business della guerra"): "Il 15 Aprile 2004 l’ENAIP (Ente nazionale istruzione professionale, emanazione delle cattolicissime Acli), ha presentato ufficialmente il progetto Scuso (Security Consulting United Didactics Organization) finalizzato alla formazione di personale esperto in sicurezza. Addetti alla sicurezza e personale generico di porti e aeroporti e del comparto industriale; ma anche impiegati di banche, di uffici postali, della pubblica amministrazione e dei musei, guardie giurate e istituti di vigilanza. A loro è indirizzato il nuovo corso di formazione che si pone all’avanguardia sul mercato e lo fa avvalendosi di una collaborazione di tutto rispetto, in materia di sicurezza: la Logans Ldt, una multinazionale israeliana specializzata nella consulenza per la sicurezza anticrimine e antiterrorismo, una di quelle società che addestrano ed arruolano personale di sicurezza del tipo di quello attualmente presente in Iraq".

Per quanto eticamente ripugnante la commistione tra attività umanitarie e compiti militari trova un punto di sintesi comune nell’assunzione della sicurezza quale paradigma applicativo dell’assistenza ai paesi poveri: non ci può essere aiuto senza sicurezza delle popolazioni locali e degli operatori internazionali, così come non può determinarsi uno sviluppo credibile senza mantenere la sicurezza in queste aree di conflitto. L’insegnamento che molti operatori internazionali ritengono di aver appreso dai conflitti sorti dopo la caduta del muro di Berlino, è che la coercizione e l’uso della forza anche se raramente prevengono i conflitti, spesso sono assolutamente necessari. La collaborazione sul campo tra apparati militari (o di polizia) e Ong si va accentuando ed è difficile pensare che siano i primi ad assumere comportamenti umanitari, mentre non si può escludere una omologazione delle Ong alla logica della pace ottenuta con ogni mezzo, incluse le armi. In fondo anche l’addestramento di personale impiegatizio alle tecniche di sicurezza può ben rientrare nel concetto e nei compiti della Difesa Civile tanto più se a questa si pretende di assegnare il compito folle di dare vita alle istituzioni mondiali della democrazia.

Un altro aspetto oscuro che coinvolge il settore delle Ong impegnato nei diritti civili è quello che lega determinati cambiamenti di assetto politico e sociale di certi paesi, all’attività di queste Ong. Tali avvenimenti, che secondo alcuni commentatori si configurano come "rivoluzioni a bassa intensità", riguardano principalmente i paesi del centro- est europeo ma hanno i loro riferimenti teorici e di indirizzo negli Stati Uniti. L’elaborazione di teorie complesse per abbattere governi sgraditi (o ritenuti dittatoriali) che fanno perno sulla lotta non violenta, è iniziata nei primi anni ’90 per opera di Gene Sharp , Peter Ackerman e Cristopher Kruegler ed ha trovato una forte rispondenza, oltre che nella Conferenza dei vescovi cattolici degli Usa, in alcune Ong e organizzazioni no-profit statunitensi quali: National Endowment for democracy (Ned); National democratic institute (Ndi); International Republican Institute (iri); la Ong Freedom House e l’Albert Einstein Institute finanziato dalla Fondazione Soros insieme all’università di Harward il cui presidente è Robert Helvey, ex colonnello dell’esercito Usa.

Gene Sharp, che oltre al libro sopra ricordato, ha scritto numerosi testi sulle strategie di lotta non violente concepisce "la non violenza come forma di guerra" da impiegare nella destabilizzazione di regimi non democratici. Concetto ripreso da Howard Perlmutter, professore di architettura sociale ad Harward che estende la legittimità della destabilizzazione anche a quegli stati di forti tradizioni sociali e culturali che non intendono aprirsi alla globalizzazione. Ackerman, il cui libro più famoso si intitola "Strategia dei conflitti non violenti", teorizza l’impiego delle Ong in quanto veicolo ideale per sostenere i conflitti non violenti fino al rovesciamento dei governi in carica, attività che non esita a definire come "colpo di stato post-moderno". Ackerman è fondatore e presidente dell’International Center for non Violent Conflict il cui direttore è l’ex capo della Cia James Woosley.

La prima verifica di queste teorie si è avuta in Serbia. Nel 1998, a seguito delle mobilitazioni che c’erano state contro Milosevic e che avevano messo in luce l’attivismo di alcune Ong locali, la "Freedom House" e lo stesso Robert Helvey contattarono i maggiori esponenti di queste Ong per dare vita ad Otpor! (che vuol dire resistenza). L’incidenza di Otpor e del circuito di associazioni della società civile serba nella cacciata di Milosevic fu ritenuta, a torto o a ragione ,una conferma della validità della strategia dei conflitti non violenti, tanto che il Washington Post gli dedicò un lungo articolo (11.12.2000) in cui illustrava il ruolo avuto nella situazione interna della Serbia, dalle organizzazioni no-profit statunitensi, in pratica quasi tutte quelle sopra menzionate. Sotto la guida di Helvey e con cospicui fondi a disposizione, i dirigenti di Otpor (Aleksandar Maric, Stanko Lazendic e Ivan Marovic) crearono un’altra Ong (il Centro per la resistenza non violenta) che ha svolto numerosi seminari a Budapest e in Cecoslovacchia ad attivisti di altre Ong dei paesi dell’Est. In pratica si trattava di replicare quanto avvenuto in Serbia possibilmente con maggior risonanza mediatica, creando un network di organizzazioni della società civile locale collegato ad una rete internazionale; in questo modo si sarebbero potute trasformare manifestazioni locali in eventi di portata internazionale anche con l’aiuto di consulenti sondaggisti come la Psb (Penn, Schoen e Berland, consulenti di Bill Clinton e Bill Gates) che avevano operato con successo a sostegno della campagna di Otpor.

Su queste basi sono nate le organizzazioni Zubr in Bielorussia nel gennaio 2001; Kmara in Georgia, Aprile 2003; e Pora in Ukraina nel giugno 2004 ognuna con il compito di mobilitare la società civile e le sue organizzazioni contro i governi in carica. Eduard Schevardnazde fu allontanato nel 2003 dalla Georgia (la rivoluzione delle rose) mentre Victor Yushchenko (appoggiato dagli Usa e da Pora) è divenuto presidente dell’Ucraina nel 2004 grazie a quella che i mass media hanno definito "rivoluzione arancione".

Proprio queste esperienze nei paesi dell’Est hanno convinto la Casa Bianca del ruolo di penetrazione politica ed economica che possono rivestire le Ong nel quadro della grande competizione mondiale.

In aggiunta ai fondi destinati agli aiuti umanitari, Bush ha varato nel 2003 il Millennium Challenge Corporation (Mcc , sfida del millennio) che prevede di elargire cinque miliardi di dollari all’anno a partire dal 2006 in prestiti ai paesi poveri. Per rientrare nel programma di aiuti questi paesi dovranno possedere determinati requisiti politico-sociali secondo una lista di sedici indicatori suddivisi in tre gruppi: giustizia, diritti umani e liberalizzazione economica. Più il paese si dimostrerà aperto all’economia di mercato, più aumenteranno le sue chances di finanziamento che saranno prima vagliate e poi coordinate da Ong e Fondazioni statunitensi. In questo modo gli Usa intendono esportare la società civile o, secondo le parole di un alto funzionario dell’Usaid intendono:"promuovere lo sviluppo economico internazionale, esportando i frutti della società civile negli altri paesi".

Parallelamente Bush ha annunciato la creazione di una nuova struttura nell’ambito del Dipartimento di stato, l’Office for Reconstrction & Stabilization (Ors) con il compito di monitorare quelle aree del mondo (Caspio, Africa Occidentale, Latino America) dove la presenza di paesi non democratici o in cui la democrazia è minacciata, può richiedere un intervento degli Stati Uniti. Secondo il Pentagono infatti mentre le forze armate sono assai capaci nell’impiego della forza per conseguire vittorie militari, per il pieno successo di una operazione occorre predisporre di mezzi e uomini specializzati nel ricostruire e stabilizzare la situazione dopo la fine delle ostilità, compito in cui le Ong hanno raggiunto un alto grado di specializzazione. Direttore di questo ufficio è Carlos Pascual, già ambasciatore in Ucraina, che in un discorso tenuto nell’Ottobre 2004 al Csis (Center for strategic and international study di Washington), ha spiegato che: "Nel mentre si sta svolgendo l’opera di stabilizzazione occorre pensare alla tappa seguente, che in molti casi significa distruggere le vecchie strutture della società, in particolare le imprese di proprietà dello stato responsabili di aver creato un’economia non competitiva"

 

Conclusioni

Con la caduta del muro di Berlino sembrò venir meno la contrapposizione politica e militare tra est ed ovest. Anzi per molte organizzazioni politiche, quella fu l’occasione per ripensarsi e trasformarsi essendo chiaro che, al di là degli schieramenti politici, ciò che aveva vinto era l’economia di mercato e a questa occorreva affidarsi per la ricerca di nuovi valori da iniettare nella mente frastornata di tanti militanti giovani e meno giovani. La sinistra istituzionale –specie in Italia- aveva da tempo avviato un processo di rimozione collettiva del marxismo che nel 1990 aveva portato Occhetto a dichiarare: "Di fatto vengono meno [con la caduta del muro, ndr] i presupposti dei sistemi di idee e di forze che hanno determinato per quasi un secolo le forme della coscienza, sia quella dei governanti che dei governati, la concezione stessa del socialismo."

Nel congresso di scioglimento del Pci il modello neoliberista fu definitivamente accettato, tagliando ciò che restava degli ultimi legami con un passato materialista per dare credito ad una effimera schiera di deboli pensatori che nonostante tante esaltazioni di novità fine a se stesse (l’andare oltre, il novismo), produssero soltanto ulteriori rinunce concettuali: dalla soggettività di classe, all’oggettività del lavoro; da una concezione conflittualmente interclassista della società, ad una visione a-classista e negoziale dei rapporti di produzione. Una società "agonistica", dove si esaltava il valore delle differenze, ma anche una società differente dove non c’era più posto per l’antagonismo.

Rimossa qualsiasi ipotesi di conflitto, in un mondo dichiaratamente competitivo, l’unica idea spendibile che restava ad una sinistra ormai liberale, era quella (hegeliana) di una società etica: la solidarietà e la costruzione di rapporti sociali etici come unici surrogati -in tempi di sfrenato individualismo- alla perdita di protagonismo delle masse.

Dopo tanti anni la società civile tornava alla ribalta, era l’humus da cui attingere nuovo consenso, composto da donne e uomini di buona volontà, in molti casi stanchi e delusi di un sol dell’avvenire che non sorgeva mai e da uno sterile internazionalismo.

Le Ong hanno interpretato questo passaggio storico riempiendo di false aspettative ciò che il neoliberismo (con la connivenza della sinistra) andava svuotando non solo nelle funzioni pubbliche dello stato, ma anche nelle aspirazioni di tanti militanti che hanno creduto nella possibilità di rendere compatibili profitto e solidarietà, natura e merce, mercato e libertà.

Oggi è possibile misurare quanto sia inconsistente ed ambiguo il contributo etico delle Ong, non solo perché la mano che dispensa saltuarie elemosine è la stessa che toglie quotidianamente risorse e speranze ai due terzi dell’umanità, ma soprattutto perché il mondo che ci presentano le Ong è un mondo sterilizzato dagli interessi di parte. Nella loro visione ci sono i conflitti, ma non se ne vedono i protagonisti e le cause, quando vengono citate, sfumano in una descrizione manieristica: i conflitti sono etnici, religiosi, qualche volta esplodono per questioni di confine, mai che possano essere di natura economica o indotti per cause di interessi terzi. Quanto ai soggetti che vi operano, sono collocati al di fuori di ogni contesto storico-politico: ci sono vittime ma non ci sono carnefici, ci sono i cattivi ma non c’è la cattiveria. La violenza che ci illustrano le Ong è lontana, non ha origini se non quelle improbabili di un arma caduta (casualmente?) nelle mani sbagliate. Forse che le Ong non sono in grado di sapere chi come e perché ha costruito e consegnato quell’arma?

Il fatto è che di tutti i conflitti che affliggono la scena mondiale, quello più ignorato dalle Ong è il conflitto di classe, dove la supremazia delle classi dominanti si esercita in modo persistente, diffuso e violento anche quando non si manifesta attraverso le forme della guerra.

Le classi dominanti non governano solo ricorrendo alla forza delle armi o al potere delle leggi. Esse costruiscono il consenso attraverso le attività di un’ampia gamma di istituzioni e di persone (non necessariamente membri della classe dominante) che divulgano l’ideologia della classe dominante come se fosse soltanto senso comune. E l’ambito privilegiato dove si esercita questa egemonia è rappresentato dalla società civile di cui le Ong sono uno strumento operativo esemplare e capillare. Perciò una riflessione critica sull’operato delle Ong non può prescindere da una critica alla società civile, per come essa ripropone e difende quei fondamenti classisti della società borghese che sono alla base della disuguaglianza e che moltissime Ong ignorano: la proprietà dei mezzi di produzione, la costrizione al lavoro salariato, i diritti sempre dichiarati e mai applicati.

Scriveva Brecht che:"Ci sono molti modi di uccidere. Si può infilare a qualcuno un coltello nel ventre, togliergli il pane, non guarirlo da una malattia, ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al suicidio, farlo andare in guerra, eccetera. Solo pochi di questi modi sono proibiti [in tutti gli stati sviluppati, ndr] nel nostro stato". E’ così che agisce concretamente la società civile nel mentre predica la solidarietà e la pace: per essa è socialmente lecito tutto ciò che non è espressamente vietato, ma ciò che potrebbe essere vietato/impedito per contribuire all’emancipazione della società non la riguarda, perché non è alla trasformazione dei rapporti sociali che mira la società civile, quanto al loro mantenimento in una forma più etica.

Oggi che la guerra costituisce una minaccia permanente, la società civile predica la pace ma il suo impegno maggiore non consiste nell’evitare la guerra quanto nel renderla più umana. Essa non aggredisce le cause della guerra, ma ne cura gli effetti; e mentre nega ogni legittimità alla violenza, non esita a chiedere che la pace sia imposta anche con le armi.

Giorgio Ferrari

Rossovivo