PER LA COSTRUZIONE DI UNA POLITICA COMUNISTA RIVOLUZIONARIA E DELLA ADEGUATA ORGANIZZAZIONE PER LA LIBERAZIONE DI CLASSE!

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 0. Ma chissà da dove , saliva sull’Europa il presentimento che il futuro avrebbe distrutto tutti i piani del presente. (“Il buon soldato Sc’vèik” di Jaroslav Hašek)

 

Come compagne e compagni di base che hanno mantenuto -ovunque si siano trovati- una lettura marxista degli accadimenti politici in atto e una chiara consapevolezza della soluzione comunista come unica soluzione per la libertà degli uomini e delle donne appartenenti, ugualmente a noi, alle classi subalterne:

ci sentiamo obbligatia rivolgere ai nostri fratelli e sorelle di classe un pressante appello

per reagire, da ora, come comunisti organizzati contro la barbarie criminale di questa società diretta da speculatori e profittatori che vuole toglierci il presente e il futuro. Per rendere concreta questa volontà di reagire, bisogna purtroppo assumere che le sconfitte strategiche subite a livello nazionale e internazionale dalla classe lavoratrice hanno reso inservibili per le nostre irrinunciabili e semplici esigenze, quegli strumenti ancora oggi propagandati come la soluzione universale della crisi sistemica che ci sta soffocando, ovvero: il modello economico come ora si configura; i partiti, intesi come insieme omogeneo, che lo supportano; le elezioni che ciclicamente lo suffragano. Siamo del parere che la percezione della inservibilità di questi strumenti sia patrimonio ormai di molte e di molti. Partendo da questa ipotesi vogliamo, con questo contributo, abbozzare una riflessione-analisi di classe sulla nostra situazione per tentare di iniziare un percorso che dia vita a nuove forme di organizzazione e lotta politica le quali garantiscano a noi, come classe lavoratrice complessiva, le irrinunciabili e semplici esigenze -diritto al lavoro e alla cultura per una vita dignitosa; diritto alla dignità attraverso un lavoro e la cultura- che sono il nostro presente e il nostro futuro. È un fatto che la situazione risulta “oggi, peggio di ieri”.Questa affermazione ha, per noi classi subalterne, validità di legge oggettiva nella presente fase di capitalismo finanziario globalizzato: legge oggettiva, significa che il fenomeno che essa descrive continuerà sinché le cause che lo generano non verranno eliminate ed è quello che ci ha obbligato a riflettere, per agire. La legge “oggi peggio di ieri” ha nel nostro paese, per molti di noi, un senso preciso ad iniziare dal 2007; ma in generale, come classe complessiva, ciò che ci è venuto addosso ora si è presentato ripetute volte, sotto condizioni e forme diverse, dall’inizio del secolo scorso. Una nostra limitazione, non secondaria, è la mancanza di memoria storica, di memoria politica. Questa ciclicità delle crisi, sempre pagate dalle masse popolari, sottende dunque una patologia sistemica incurabile del modo di produzione capitalistico; alla quale, le classi dirigenti che si sono succedute, hanno associato una loro criminale soluzione, parimenti ciclica: la guerra. Crisi e guerra sono quindi le caratteristiche oggettive, ora potenziali ora reali, che il capitalismo ci scarica addosso durante tutto l’arco della nostra vita: la crisi è in questo momento un fatto reale, che subiamo direttamente, ma in essa già si manifestano le condizione per una nuova guerra. In realtà per molti popoli questa guerra è già iniziata. Quello che stiamo dicendo è facilmente riscontrabile e la sua risultante altro non è che la nostra impossibilità a modificare le caratteristiche fondanti, a noi nemiche e tendenzialmente mortali, del modello economico attualmente dominante. I 65 anni dell’entrata in vigore della Costituzione sono lì a sottolinearlo e sono una dimostrazione dirimente di questa impossibilità. Chi nel contesto odierno continua a chiederne la realizzazione, intendasi di quei patti-principi che si trovano in essa solo grazie ai rapporti di forza usciti dalla Liberazione, e che direttamente ci interessano: diritto al lavoro (Art.4); alla uguaglianza (Art. 3); alla pace (Art.11); alla difesa contro il fascismo (DTF, XII),sta prendendoci solamente in giro.

C’è una sola soluzione a tutto ciò. La soluzione è l’uscita dal modello capitalista, cioè nella costruzione di una organizzazione sociale economico-politica che tagli l’interdipendenza tra la produzione sociale dei beni e il profitto individuale di chi se ne appropria. Contro questa soluzione, per quanto complessa, non è possibile evocare nessuna “legge universale” (scientifica, economica, etica) che la dimostri impossibile: al contrario, il suo stesso “dna” implica una strutturale riduzione dell’entropia del processo economico. Storicamente, come sappiamo, la costruzione di questa soluzione è stata tentata: ci riferiamo cioè alla gloriosa, complessa e incompiuta esperienza iniziata dal movimento comunista con la costruzione della Unione Sovietica. Esperienza che valutiamo e analizziamo criticamente nel suo complesso e che deve essere necessariamente contestualizzata alle condizioni storiche ed economiche che l’hanno prodotta.

Ma tornando all’oggi, le concrete condizioni economiche e politiche nelle quali siamo soffocati ci obbligano, come prima accennato, a riconoscere che tanto gli usuali strumenti di difesa dei nostri diritti -partiti, sindacati- quanto l’unico momento di apparente decisionalità, falsamente fatto coincidere con la “democrazia” -le elezioni- non abbiano ormai nessuna validità, non ci rappresentino assolutamente più. Tali concrete condizioni hanno riportato pesantemente indietro, per noi lavoratori, le lancette della Storia e, parimente, ci obbligano a reagire in modo organizzato, iniziando a tracciare un cammino che risulta, attualmente, privo di qualunque punto di riferimento. È nostro compito di comunisti recuperare l’unica “bussola” capace di non farci smarrire nella implementazione di questa marcia la cui lunghezza non conosciamo esattamente. Lo sviluppo adeguato del contenuto espresso dalle cinque righe sottostanti ci indica dove la “bussola” si trovi:

 

Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. (…) Quale è il partito d’opposizione che non sia stato tacciato di comunista dai suoi avversari che si trovano al potere? E quale è il partito di opposizione, che, a sua volta, non abbia ritorto l’infame accusa di comunista contro gli elementi più avanzati della opposizione (…)? È ormai tempo che i comunisti (…) alla fiaba dello spettro del comunismo contrappongano …

 

L’ora di “contrapporre” si sta nuovamente presentando alle avanguardie delle classi subalterne. Sul piano teorico, questa “contrapposizione” non potrà che realizzarsi attraverso l’uso dialettico della analisi e del metodo che il marxismo e il leninismo hanno lasciato alle organizzazioni comuniste rivoluzionarie: in esso sta la possibilità di capire, spiegare e indicare il superamento del sistema di produzione capitalista nelle attuali sue specificità di capitale finanziario globalizzato. Il comunismo non è certo morto e lucida è la convinzione delle borghesie mondiali di come esso sia l’unica forza teorica e pratica capace di scardinare la società capitalistica. L’assunzione viva del marxismo e del leninismo è dunque un primo passo comune per riportare noi comunisti ad essere la figura visibile della coscienza di classe del proletariato. Parimenti, sul piano della prassi questa “contrapposizione” dovrà sviluppare il centrale nodo della iniziale struttura organizzativa che deve risultare necessariamente coerente a questa fase, tema che riprenderemo nel punto 2. con l’obiettivo di metterlo alla discussione e alla verifica. Nel tutto, teoria e prassi, si presenta poi la specifica attenzione ai temi dell’antifascismo militante, dell’internazionalismo proletario, del rapporto con le istituzioni e la democrazia borghese all’interno del marcato degrado della concreta situazione italiana.

Queste problematiche, come si sa e come già detto, sono state affrontate -in parte risolte e in parte no, sino a implodere nella fine della esperienza socialista- dai comunisti che ci hanno preceduto. Con esse occorre confrontarsi e fare i conti: cose che nel contesto del presente contributo pensiamo di innescare sintetizzandole brevemente nel punto immediatamente successivo.

 

1. Una riflessione sui limiti storico-economici e sulla attualità politica della 1ª esperienza socialista.

 

Con la vittoria della Rivoluzione russa e il conseguente azzeramento delle precedenti strutture economiche e politiche dominanti, i sovietici credevano possibile l’eliminazione di quei molti problemi di fondo che impedivano lo sviluppo del paese per raggiungere gli obiettivi strategici che erano la ragione stessa della Rivoluzione. Questi obiettivi strategici, finali, possiamo “scolpirli” attingendo direttamente dalla “Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS” edito a Mosca nel 1938: “Lenin” -ritornato in Russia il 3 aprile 1917 dopo 10 anni di espatrio- ”volle che il Partito smettesse di chiamarsi Partito socialdemocratico per adottare il nome di Partito Comunista … visto che la meta era il raggiungimento del comunismo … che significa “Da ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue necessità””. I sovietici si accorsero però presto che le loro aspettative erano duramente contraddette dai fatti. Nel 1922 nell’XI° Congresso del Partito Lenin affermava infatti: “Saprete voi comunisti, voi operai, voi parte cosciente del proletariato che si è accinta a dirigere lo Stato, saprete voi fare in modo che lo Stato che avete preso nelle vostre mani funzioni a modo vostro? Ed ecco, un anno è trascorso; lo Stato è nelle nostre mani, ma ha forse funzionato a modo nostro, nelle condizioni della nuova politica economica? No. Noi non vogliamo riconoscerlo: non ha funzionato a modo nostro. E come ha funzionato? La macchina sfugge dalle mani di chi la guida; si direbbe che qualcuno sia seduto al volante e guidi questa macchina, che però non va nella direzione voluta, quasi fosse guidata da una mano segreta, illegale, Dio solo sa da chi, forse da uno speculatore o da un capitalista privato o da tutti e due insieme. Il fatto è che la macchina va non nella direzione immaginata da chi siede al volante, anzi talvolta va nella direzione opposta. Questo è quel che più conta e che si deve ricordare nella questione del capitalismo di Stato. In questo settore fondamentale bisogna studiare incominciando dal principio, e solo quando saremo completamente convinti di questo e ne saremo coscienti, potremo essere certi che impareremo.”. Dunque, in un contesto di consistente appoggio popolare e di potere politico incontrastato, gli obiettivi intermedi legati all’improrogabile sviluppo del paese non solo non venivano raggiunti ma quel che è peggio la sua direzione economica risultava parzialmente fuori controllo. Così, i profondi mutamenti istituzionali realizzati dalla Rivoluzione in Russia, di per se stessi non avevano:

– modificato la complessa dipendenza del settore industriale dal soverchiante settore agricolo;

– permesso la pianificazione per uno sviluppo industriale assunto come priorità centrale;

– eliminato l’acuta scarsità d’informazioni economiche e di forza lavoro specializzata.

È questa concreta situazione che polarizza quelli che abbiamo chiamato “limiti storico-economici” oggettivi della 1ª esperienza socialista, e che possiamo indicare come il primo fattore ostativo. Il nostro presente, come realtà capitalista industrializzata, non dovrà chiaramente farci i conti. Ma questo non era tutto per la Russia sovietica. Esisteva una ulteriore oggettiva difficoltà, ovvero la politica dell’imperialismo che la boicottava economicamente, le negava i crediti internazionali, le costruiva perennemente le condizioni per scatenare contro di lei una aggressione militare, del resto più volte avvenuta: ecco il secondo fattore ostativo. Questi due fattori, di enorme sinergica importanza negativa, non permisero la nascita e il conseguente sviluppo di una forma economica -teorica e pratica- fondata su relazioni di produzione socialiste. La produzione sovietica -assunta poi come modello di riferimento universale per l’intero blocco socialista futuro- rimarrà una produzione di merci, di beni, cioè, destinati allo scambio e non alla soddisfazione delle necessità. Con ciò, la presenza della forma valore all’interno della 1ª esperienza socialista denunciava il ripresentarsi, anche se sotto nuove forme, di determinati e precedenti rapporti sociali che necessariamente producevano vantaggi differenziali di classe; l’implosione dell’Unione Sovietica lo avrebbe poi confermato senza possibilità di errore.

Ma, come prima sottolineato, gli accadimenti sovietici vanno visti nel complesso e nel contesto e la finalità della analisi critica della 1ª esperienza socialista ha per noi un senso nella necessità di doverne sviluppare una 2ª. Antidialettica e quindi inservibile una critica che focalizzasse esclusivamente i risultati indotti dai due fattori ostativi (uno “ereditato” dallo zarismo, l’altro voluto dall’imperialismo) senza considerare le conquiste politiche, sociali, culturali, economiche realizzate dalle masse lavoratrici sovietiche; la loro vittoriosa lotta a morte contro il fascismo e il nazismo anche come precondizione per l’emancipazione delle classi subalterne di tutta l’Europa; l’appoggio concreto della Unione Sovietica alle lotte di liberazione dei popoli del Sud del mondo. Fatti e sentimenti che spiegano, alla sua implosione, la gravità del colpo subito dal Movimento Comunista e Antimperialista nel suo complesso. Ora, esattamente nella fase che stiamo vivendo, risulta chiaro come la 1ª esperienza socialista sia stata un momento di necessaria transizione verso concreti e oggi possibili livelli di più alto e integrale sviluppo del genere umano. Una esperienza, dunque, che non può essere valutata secondo un “aritmetica” di risultati politico-economici presi in valore assoluto ma che va collocata storicamente: insomma, né prematura né tantomeno obsoleta ma un riferimento che resta attuale per le classi subalterne. Così come l’esperienza del mercantilismo, fuori da una proporzione temporale, è stata una condizione necessaria dello sviluppo del modo di produzione capitalista, così l’esperienza sovietica, comunque incompiuta e infine implosa, risulta un passaggio di riferimento imprescindibile per la costruzione del modo di produzione socialista di oggi.

 

1.1. La specificità del movimento comunista italiano nella polarizzazione della 1ª esperienza socialista.

 

Nel quadro di una forte e contraddittoria interdipendenza con la 1ª esperienza socialista, incompiuta e infine implosa, muoverà i suoi primi passi e si svilupperà la dirigenza del Partito Comunista d’Italia (PCd’I), Sezione (italiana) della III Internazionale. Per tentare di “scolpire” criticamente una prassi che fu propria della dirigenza comunista italiana, sempre come tale riconosciuta dal partito nella sua quasi totale generalità, ci sembra efficacie giustapporre le risposte che essa dette ai momenti di crisi rivoluzionaria del 1921-1926 e del 1944-1948, a quelle date dalla dirigenza bolscevica a analoghe situazioni di criticità: ovvero 1903-1907 e 1917-1922. L’evidente differenza che da questa giustapposizione si evincerà relativamente all’agire oggettivo e soggettivo dei due gruppi dirigenti, costituisce l’iniziale fattore che, poi riproducendosi, riuscirà a coagulare nel tempo una soggiacente linea politica, vettore, già alla fine degli anni ’50, di una totale e “propositiva” compatibilità con il capitalismo da parte del partito comunista italiano. Per la giustapposizione della prima coppia di periodi svilupperemo una sintetica argomentazione, mentre per la seconda, di lettura analoga, indicheremo solo i punti qualificanti.

 

1903-1907, Russia: nel primo di questi cinque anni, dopo la rottura, in agosto, con i menscevichi, nasce la dirigenza bolscevica che mette in essere la costruzione del partito rivoluzionario della classe operaia, il cui programma e la cui organizzazione assumono come necessario e ineludibile, nelle concrete condizioni del paese, la costruzione di una dottrina e di una struttura militare. La correttezza di questa impostazione si avrà dalla “prima” Rivoluzione, scoppiata nel 1905 a causa delle impossibili condizioni di vita delle masse popolari, dei soldati e dei marinai nel contesto della sconfitta militare subita dallo zarismo ad opera del Giappone. Analizziamo brevemente la prassi della dirigenza bolscevica: i militanti e i quadri bolscevichi di tutto il paese andranno a dirigere, per quanto fu loro possibile, gli scontri armati e comunque a parteciparvi; addestreranno militarmente operai e contadini organizzandoli in milizie popolari armate; fomenteranno e parteciperanno agli ammutinamenti dell’esercito e della marina; organizzeranno acquisti di armi all’estero e il loro trasporto clandestino in Russia. Dirà un dirigente bolscevico: “Cosa ci occorre per ottenere la vittoria? Armamento, armamento e più armamento”. Se la sconfitta, nel 1907, della “prima” Rivoluzione -sconfitta di fatto militare nella quale l’esercito ebbe il ruolo più importante anche coadiuvato da forze equivalenti allo squadrismo fascista, i “centoneri”, organizzate dalla borghesia reazionaria- renderà impossibile gli obiettivi dati dalla dirigenza bolscevica, la eliminazione del potere zarista e l’instaurazione di una repubblica democratica come primo passo verso il socialismo, ciò nondimeno la pratica dell’esperienza rivoluzionaria di decine di migliaia di proletari, di contadini e di soldati, di cui diverse migliaia organizzati in milizia popolare armata, fisserà risultati fondamentali per il futuro, ovvero: creerà quell’embrione di potere popolare, i “Soviet”, che sarà un riferimento di lotta e che infine si affermerà come struttura di governo rivoluzionario popolare; creerà la convinzione nell’avanguardia delle masse popolari di poter raggiungere i propri obiettivi politici; creerà una rete di quadri di partito sperimentati che saranno decisivi per la vittoria della “terza” Rivoluzione, quella di Ottobre.

 

1921-1926, Italia: nel primo di questi cinque anni, dopo la scissione del gennaio con i socialisti, nasce la dirigenza del PCd’I il cui quadro di riferimento si trovava nella adesione e nella partecipazione alla III Internazionale (fondata nel 1919) e nella costruzione delle condizioni di una Rivoluzione socialista nel proprio paese. La lotta di classe in atto si manifestava con estrema asprezza e più volte sotto la forma di scontro armato. Il contesto è quello del post-guerra mondiale, nel quale centinaia di migliaia di operai e contadini sapevano usare le più moderne tecniche e tattiche di combattimento al pari di qualunque esercito professionale (del resto questo era allora comune a tutta l’Europa); le armi, inoltre, “giravano” non vi era certo la necessità di “comprarle all’estero e trasportarle poi in forma clandestina”. Nonostante l’iniziale ambiguità -ricordiamo il confuso, e manipolato, ribellismo presente in molti aderenti ai fasci di combattimento che si evince dai contenuti del programma di “San Sepolcro” del 1919- il fascismo stava colpendo politicamente e, soprattutto, militarmente le organizzazioni politiche e sindacali e le soggettività stesse del proletariato e delle masse lavoratrici italiane. A fronte di ciò, la dirigenza italiana non prenderà nessuna decisione strategica nonostante la pressione di molti militanti di base e di quadri per organizzare una risposta armata (cosa unica nella storia dei partiti comunisti, escluso quello salvadoregno nel 1970) e nasconderà la sua inadeguatezza e la sua indecisione dietro valutazioni totalmente contraddittorie. Quanto affermiamo è reso manifesto dalla più alta carica del partito, il segretario generale Palmiro Togliatti. A sconfitta avvenuta e non “a caldo”, egli, rispettivamente nel 1928 e nel 1932, sintetizzerà:

 

– “perché” il fascismo era più forte: “… il fascismo non era unicamente reazione capitalistica. Esso comprendeva nello stesso tempo molti altri elementi. Comprendeva un movimento delle masse piccolo-borghesi rurali; era anche una lotta politica condotta da certi rappresentanti della piccola e media borghesia contro una parte delle antiche classi dirigenti; era un tentativo di creare una organizzazione unificata, estendentesi a tutto il paese, raggruppante una frazione di piccoli borghesi delle città diretti da elementi declassati (ex-ufficiali, disoccupati professionali); era infine una organizzazione militare che poteva pretendere di opporsi con probabilità di successo alla forza armata regolare dello Stato”;

 

– “perché” il partito non poteva rispondere al fascismo sul piano dello scontro armato: “La storia della lotta del proletariato italiano contro il fascismo, prima della marcia su Roma, è una storia di combattimenti staccati, che non riescono a fondersi insieme, nel corso dei quali il proletariato non riesce a unire tutte le sue forze in un unico fronte organizzato. È vero che noi eravamo un piccolo partito di 30.000 membri, appena uscito da una scissione, ben lontano dal possedere e persino dal comprendere bene quali sono le qualità e quali sono i compiti di un partito bolscevico”.

 

Da questa prima giustapposizione escono evidenti i limiti, la inadeguatezza e la contraddittorietà dell’analisi e dell’agire della dirigenza del PCd’I. Da una parte, essa afferma la possibilità per uno spezzone di classe subalterna -piccoli borghesi guidati da elementi declassati- di organizzarsi militarmente in maniera molto efficace; dall’altra, tale identica possibilità nega per la parte di classe subalterna, il proletariato, di cui essa stessa ha la direzione; laddove poi questa impossibilità risulta smentita, la si riduce a “combattimenti staccati”, disuniti e disorganizzati. I commenti sono superflui. I “combattimenti staccati” che i militanti e i quadri di diverse realtà territoriali daranno in forma organizzata e unitaria -questa forma, gli “Arditi del Popolo”, sarà rigettata dalla dirigenza che proibirà ai propri militanti qualunque contatto con essa- produrranno clamorose vittorie che riecheggeranno tra le masse popolari. Vittorie che tanto la dirigenza bolscevica quanto quella della III Internazionale segnalarono più volte, a quella italiana, come esempi da moltiplicare invitandola a mettere organicamente mano alla costruzione di una risposta militare unitaria. Segnalamenti, come si vede, risultati del tutto inutili. Non meraviglia quindi che sino alla vigilia delle misure dittatoriali prese dal governo fascista e divenute operative il 6 novembre del 1926, la dirigenza comunista abbia continuato a voler assurdamente fare presenza nell’inesistente dibattito parlamentare, offrendosi indifesa agli arresti che, a partire da quello di Antonio Gramsci avvenuto l’8 novembre del 1926, la falcidieranno. Non c’è male per un partito che appena nove mesi prima, al suo III Congresso a Lione, aveva deciso, nelle tesi politiche, la sua “trasformazione bolscevica”. [Vedi in “ALLEGATI” i “21 Punti della III Internazionale (1920)” e i “10 Punti del Congresso di Livorno (1921)”]

 

La lettura della seconda giustapposizione -1917-1922 in Russia con 1943-1948 in Italia- è assolutamente equivalente alla prima. La differenza sta solo nel verso del loro sviluppo: negativo per la prima giustapposizione, positivo per la seconda. La premessa di questa positività, costruita fondamentalmente dalle sconfitte militari inflitte dalla Armata Rossa al nazifascismo, è però, in Italia, anche il prodotto dell’enorme lavoro politico realizzato tra il 1926 e il 1943 con coraggio e sacrifico dai militanti e quadri comunisti. Stante questa grandiosa e sottovalutata esperienza popolare, che si coagulerà nella Resistenza armata, la dirigenza italiana dell’ora Partito Comunista Italiano (PCI), nella consueta maniera contraddittoria, assumerà l’accezione passiva dell’indicazione data dalla dirigenza sovietica della necessità di “arrotolamento” di potenziali sviluppi rivoluzionari nell’Europa sud occidentale: non un tentativo sarà fatto di autonoma analisi e di autonoma valutazione rivoluzionarie in un teatro, che, certo complesso, vedeva però avanguardie e percentuali importanti di popolo in Italia, Jugoslavia, Albania e Grecia disposte a lottare per una società socialista.

 

Analisi e autonomia rivoluzionarie che i partiti comunisti della Cina, della Corea e dell’Indocina invece rivendicheranno e applicheranno, nonostante l’analoga indicazione di “arrotolamento”.

 

Per quanto detto sulle dinamiche della lotta di classe in Italia, sarà quindi del tutto naturale il formarsi di una “forbice” tra un nucleo, certo fortemente minoritario, di compagni/e comunisti da una parte, e il PCI, nella quasi sua totalità, dall’altra. Questa “forbice” si materializzerà nel corso degli anni ‘60, anche sulla proiezione della rottura tra dirigenza sovietica e dirigenza comunista cinese, in una serie di scissioni che daranno vita ad altri partiti comunisti identificati, brevemente, come marxisti-leninisti. In modo formale e strumentale -sulla evidente base dell’esistenza delle diversità: vedi lo slogan “via italiana al socialismo” coniato da Togliatti- il marxismo e il leninismo erano però considerati come propria proprietà anche dal PCI. Il risultato concreto e finale di questo “scontro ideologico”, verificato e verificabile, è stato l’impoverimento, il degrado e infine la cancellazione dell’unico strumento teorico utilizzabile dalle classi subalterne per la loro emancipazione. Questo risultato si è poi configurato assolutamente funzionale per il settore maggioritario restato interno al prosieguo della parabola del PCI e ora stabilizzato in un partito, il PD, la cui dirigenza incarna e sviluppa le strategie e gli interessi di una precisa area capitalistica italiana.

Quando questa incarnazione risultò lampante e conclamata -nella “svolta della Bolognina” del novembre 1989, per intendersi- si ebbero a seguire, quasi obbligatorie per alcuni dirigenti più vecchi nati politicamente nel PCI, altre scissioni che dettero luogo ad altrettante formazioni mantenenti il nome “comunista”. In queste formazioni le dirigenze erano formate, in diverse rispettive percentuali, da “vecchi” che avevano, attivamente o passivamente poco importa, obbedito e servito sia alle logiche delle “soluzioni attraverso metodi amministrativi” che a quelle della “via italiana al socialismo” e da “giovani” i cui riferimenti economici, politici, etici risiedevano nel keynesismo, nella non violenza, nelle confessioni religiose. Ma non è tutto, ancora. Come pietra tombale su ciò che dichiarano di essere, queste formazioni “comuniste” ancora in viaggio per il cosmo politico dopo il “distacco” dal PCI, si presentano alle elezioni politiche del 2013 subordinate a soggettività che confondono la lotta alla mafia con la lotta di classe e lo Stato democratico immaginario con lo Stato concreto, strumento efficiente per il mantenimento del dominio di classe in mano al capitale finanziario globalizzato.

Esperienze così non potevano e non volevano costruire un percorso comunista: le conferme non sono mancate e non mancano, i risultati sono coerentemente arrivati, come si vede. Fallimentari, a volte ridicoli e a volte vergognosi: paradigmatico l’appoggio all’aggressione contro la Jugoslavia voluta dal governo D’Alema.

Alla crisi sistemica capitalista è ormai più che dimostrata l’impossibilità di rispondere dall’interno: i propositori e le loro proposte, “comunisti” o no, sono oggettivamente e soggettivamente superati e inservibili. Anche su questo dato nasce la nostra proposta.

 

È palese come, in questo grave contesto, altri gruppi sentano l’urgenza di far appello al dovere di dare vita a una politica e a una organizzazione comunista. Con essi ci confronteremo nella teoria e nella conseguente prassi.

 

1.1.1. L’implosione del movimento comunista italiano e la crisi economica riaprono la strada alla maschera del fascismo populista: questa strada va chiusa unitariamente.

 

L’implosione complessiva del movimento comunista italiano, sintetizzata nel punto 1.1., ha conseguentemente prodotto una lettura aclassista del fascismo e del suo concreto ruolo politico che ha rappresentato un fattore importante per l’esaurimento, nel tessuto stesso delle realtà popolari, del contrasto al fascismo. La “irruzione” della crisi economica applicata sulle fasce subalterne e sottoproletarie, è stata poi un secondo fattore che ha rafforzato la tenuta della sua maschera populista. Questi due fattori, tra loro sinergici, hanno costruito uno scenario che apre al fascismo la possibilità di bussare, con sue proprie proposte di “soluzioni” criminali, alla porta di segmenti “del capitale finanziario italiano”. È evidente come la dimensione della crisi permetta al fascismo di bussare anche alle porte di quelli greci, francesi, tedeschi e così via ed è questa sua “offerta” di servizi declinata contemporaneamente in Europa uno, tra altri, fatti da valutare e capire scientificamente. Per iniziare a farlo pensiamo sia utile, per noi, entrare nell’analisi del fascismo italiano in quanto prodotto di uno Stato borghese il quale, per garantire la sua supposta periclitante riproduzione, ha adottato “quella specifica” soluzione di direzione e controllo dittatoriale su base terroristica delle sue classi subalterne.

A monte di questa analisi, in seguito alquanto sinteticamente realizzata, enunciamo la sintesi principale che è da essa derivabile: l’esame comparato del rapporto tra la forma fenomenica del fascismo che tende, anche attraverso le sue eclettiche proiezioni ed esternazioni, a confondersi nella sovrastruttura complessiva acquistando così autonomia politica e la soggiacente reale e concreta sostanza-funzione storica del fascismo, rivela la sua oggettiva subordinazione al capitalismo e all’imperialismo. Sono cioè questi ultimi i fattori che oggettivamente “partoriscono” il fascismo, ovvero i motivi stessi della presenza del fascismo nella nostra società. Con ciò risulterebbe, ovvero risulta, chiaro il permanere del fascismo all’oggi, nonostante sia stato esso la causa di un epocale spargimento di sangue popolare di centinaia di migliaia di uomini e di donne del nostro paese, nonostante sia stato esso l’evidente strumento del regresso senza limite della emancipazione delle classi lavoratrici. Non può insomma esservi soluzione, nel quadro capitalistico, al “problema” fascista: un qualunque Stato borghese italiano non può eliminare il fascismo, cosa a cui la legge lo obbligherebbe, senza eliminare le relazioni di produzione che lo contraddistinguono e con ciò condannando se stesso all’auto-eliminazione per come attualmente è definito.

Il passato del fascismo: dall’inizio come amministratore delegato unico del capitale finanziario italiano, alla fine come servo dell’imperialismo tedesco. L’amministratore delegato unico è certo un pezzo importante nel “Monopoli” capitalistico; il padrone, però, lo può cacciare quando vuole e questo è esattamente il trattamento che ha ricevuto il fascismo italiano. Il fascismo come possibilità di organizzazione politico-militare nasce nel contesto della 1ª guerra imperialista e dei risultati da essa prodotti in Italia e in Europa. Gli iniziali aderenti del fascismo sono essenzialmente gli scontenti e velleitari reduci: già, in generale, ufficiali subalterni quelli appartenenti alla piccola borghesia, già, in generale, sottufficiali e graduati di truppa dell’esercito e dei corpi speciali (“Arditi”) quelli provenienti da distinti settori delle classi subalterne e dal sottoproletariato. L’insieme di queste eterogenee soggettività risulta accomunato da una parte, dal rigetto a riprendere il ruolo sociale che aveva precedentemente alla guerra, e, dall’altra, dalla volontà di “contare qualcosa” dopo i terribili anni della trincea. Questa vera e propria potenziale massa di manovra si darà in tutta Italia una labile forma organizzativa, attraverso la costituzione di sezioni di ex-combattenti, che la soggettività politicamente spregiudicata e genialoide di Benito Mussolini catalizzerà nella fondazione dei “Fasci italiani di combattimento” avvenuta il 23 marzo del 1919 a Milano nella sala riunioni di un circolo dall’Associazione Lombarda degli Industriali, in piazza San Sepolcro. I “Fasci” produrranno per il 6 giugno un loro manifesto politico, il “programma sansepolcrista”, alquanto confuso – utilizzante un linguaggio ambiguamente rivoluzionario e anticapitalista- che avrà però il risultato finale di licenziarli come una forza d’urto “sul mercato”, esattamente secondo gli obiettivi del loro dirigente. Il capitale finanziario italiano, caratterizzato da una altissima concentrazione nel settore industriale e bancario, con una decisione imprevista e spregiudicata penserà infatti a questo movimento fascista come al partito che avrebbepotuto assumere sia l’iniziale ruolo antioperaio di forza paramilitare basata sul terrorismo politico, che quello futuro di “amministratore delegato unico” dello Stato borghese. Penserà questo, in base alla sua propria valutazione della fase della lotta di classe in atto in Italia e alle insolute contraddizioni interne dell’imperialismo, in Europa, che la guerra appena finita, invece di risolvere, aveva peggiorato. Ed effettivamente, il fascismo, iniziando con la sua fase “squadrista” (1919-1921) e proseguendo poi come governo che impone, attraverso i “Sindacati fascisti dei datori di lavoro e dei lavoratori”, il monopolio della contrattazione collettiva, la soppressione del diritto di sciopero, la abolizione delle Commissioni interne di Fabbrica, la riduzione dei salari, e, direttamente attraverso l’esecutivo, l’uso della guerra come mezzo per garantire superprofitti ai monopoli, si proporrà e diverrà un efficace “amministratore delegato unico del capitale finanziario italiano. Il momento “squadrista” risulta certo quello per lui più pericoloso: ma sarà sempre sotto la diretta o indiretta presenza protettiva dell’esercito e della guardia regia, che lo “squadrismo” procederà alla sistematica distruzione delle strutture del movimento dei lavoratori. Sedi di partiti e di giornali antifascisti, case del popolo, camere del lavoro, leghe contadine, cooperative assaltate e bruciate, terrore fisico e assassinio di tantissimi dirigenti e militanti della sinistra, assieme a qualche cattolico, saranno comunque aiutati, tollerati, coperti. Al contrario, i tentativi di organizzarsi contro la violenza fascista saranno repressi dallo Stato sabaudo, complice una magistratura collusa, che colpirà selettivamente i dirigenti delle masse popolari. Su questo tema della difesa organizzata, bisogna, però, anche sottolineare il ritardo del Partito Comunista d’Italia, già prima focalizzato, che, pur essendo l’unica forza politica conseguentemente antifascista, non possedeva un nucleo di vertice realmente e concretamente rivoluzionario. Per questo, piaccia o no, né Bordiga né Gramsci riuscirono ad interpretare la fase (confusione che altri condividevano con loro: per esempio Clara Zetkin al IV Congresso della IC del 1922, vedrà il fascismo come una forza della piccola borghesia di fatto antagonista al capitale finanziario). Lo dice il fatto che l’unico tentativo articolato di difesa, la costituzione degli “Arditi del Popolo” che poneva come discriminante d’appartenenza la pratica d’azione antifascista- fu chiaramente sconfessato sia da Terracini (cioè Bordiga) che da Gramsci, nonostante le aspre critiche di Lenin; essendo pure un fatto, che, dove entrarono in azione gli Arditi del Popolo, i risultati chiaramente ci furono: Bari, Sarzana, Viterbo, Roma; Firenze, e soprattutto Parma. I responsabili che guidarono queste azioni erano ufficiali, o soldati con esperienza: Guido Picelli di Parma, Giuseppe di Vittorio di Bari, Alberto Acquacalda di Ravenna Giuseppe Mingrino di Roma.

In questo complessivo contesto, il 28 ottobre 1922,si darà la “marcia su Roma”. È il motivo che permette al re di incaricare Mussolini alla formazione di un governo a larga partecipazione. Vi confluiscono infatti liberali, nazionalisti e popolari, -questi ultimi,cioè, i futuri dirigenti della Democrazia Cristiana- assieme ad alti ufficiali dell’esercito e intellettuali come Giovanni Gentile che nel 1923 aderirà formalmente al fascismo (e, giusto venti anni dopo, alla cosiddetta “Repubblica Sociale Italiana” voluta e realizzata dai nazisti). Con il governo Mussolini il disegno del capitale finanziario italiano acquisirà definitiva concretezza.

Con reciproca soddisfazione, padroni e fascisti sfrutteranno sanguinosamente per più di due lunghi decenni, sino al 25 luglio del 1943, le masse popolari italiane. Questo non significa che tra il capitale finanziario e la struttura fascista siano mancate contraddizioni sulla gestione del potere; ma esse si sono sempre dialettizzate in una subordinazione politico-economica di quest’ultima rispetto al primo. Questa “vocazione subalterna” del fascismo ai padroni, tipica naturalmente dell’amministratore delegato, viene poi resa evidente da come il fascismo sarà cacciato dal governo del paese il 25 luglio del 1943: al darsi la sfiducia del “Gran Consiglio” a Mussolini per volontà di alcuni suoi membri legati organicamente alla monarchia e al capitale finanziario, TUTTO il baraccone fascista si squaglierà, fisicamente e politicamente, in maniera IMMEDIATA.

Servo dell’imperialismo tedesco. La riapparizione di Mussolini, nel settembre del 1943 -con l’associata ricostituzione del partito fascista (ora repubblicano) e la fondazione della cosiddetta “repubblica sociale italiana”- è voluta e realizzata dai nazisti e risponde esclusivamente alle loro necessità politico-militari ovvero alle allora necessità del capitalismo monopolistico tedesco. La dirigenza fascista, e non potrebbe essere altrimenti, lo sa senza ombra di dubbio. Memorie e interviste dei sopravvissuti di quella parte, lo riconoscono e lo dimostrano. Stragi, fucilazioni di massa, cecchinaggio; requisizioni contro la popolazione civile urbana e rurale; polizie “speciali” istallate installate nelle decine di “Ville Tristi” di tutto il centro-nord , ovvero bande di criminali esperti nel torturare, assassinare, “grassare”, ricattare; operai deportati nei lager nazisti, dai quali non torneranno, per avere scioperato, impianti industriali smontati e trasferiti in Germania; cessione al Terzo Reich delle province di Trento, Bolzano, Belluno (Zona d’operazioni delle Prealpi); Udine, Gorizia Trieste, Pola, Fiume, Lubiana (Zona d’operazioni del Litorale adriatico) rispettivamente sotto comando dei Gauleiter tedeschi del Tirolo e della Carinzia: sono questi gli atti concreti dei servi fascisti per fermare la Resistenza che sempre più crea problemi militari e politici ai nazisti e per garantire la sopravvivenza a un imperialismo tedesco sempre più in difficoltà.

Non c’è dunque assolutamente nulla , nella “repubblica sociale italiana”, della presenza né di una politica sociale ed economica che voglia realizzare una comproprietà azionaria, peraltro massicciamente sbandierata dalla macchina di propaganda fascista, tra padroni e operai delle fabbriche dove questi ultimi lavorano, né di una difesa dei confini e della integrità economica e culturale “della patria” da parte di un esercito “repubblichino” che “chiama” i giovani ad arruolarsi e che fucila in caso di renitenza.

Un dramma che sembrava “finito bene”. Dunque, il bilancio finale storico e morale del fascismo, ormai smascherato davanti alla maggioranza del paese come strumento dei padroni e servo dell’imperialismo tedesco, si chiudeva per lui con l’essere riuscito ad accentrare su di sé un odio popolare profondo. Tutto questo sembrava quindi, alla percezione della maggioranza delle classi lavoratrici, essere sufficiente per realizzare l’isolamento e l’eliminazione di quello che rimaneva del fascismo impedendo così per sempre la sua riapparizione. La Carta Costituzionale, più “prudente”, con la sua XII Disposizione Transitoria e Finale -“È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.”- pretendeva comunque fissarne la incompatibilità rispetto al nuovo ordine repubblicano uscito, in parte, anche dalla esperienza gloriosa della Resistenza.

Il presente del fascismo: con la crisi capitalista il fascismo “sociale” torna a bussare alla porta dei padroni.

Il fascismo non è, naturalmente, “riapparso” a causa della e con la crisi. Una citazione “illuminante” che noi utilizziamo è quella che riprende lo scritto del 1969 di un giovane missino dell’Università di Pisa che discettava sul sessantesimo, allora, anniversario della nascita del futurismo (20 febbraio 1909):

“… la rivoluzione futurista non si arresta solo alla contestazione della società, come insieme di norme morali, e della cultura passatista, ma spazia ancora più oltre, fino ad esigere l’esproprio delle terre in favore dei contadini, a porre teorie interessantissime … come l’azionariato sociale, primo passo verso la socializzazione. Programmi questi ultimi, attuati dai fascisti, il primo durante il ventennio, il secondo durante la RSI. Certamente per Marinetti … il fascismo ventennale altro non fu che la realizzazione minima di quella che è stata la rivoluzione culturale futurista … ancor oggi quanto mai valida e piena di mordente. Ho accennato dianzi alla RSI: l’ultima sua opera, esteticamente perfetta, e pervasa da un sentimento titanico di eroica religiosità è dedicata alla X MAS. In tale poema si sintetizza e palpita una visione del mondo, la Weltanschauung di Marinetti … esploso nelle stelle da lui conquistate. Ma le sue azioni-pensiero sono già una miccia pronta ad accendersi. Forse è già accesa”.

Dunque, la ricerca, a meno di 25 anni dalla Liberazione, di riproporre categorie politiche, economiche, sociali e culturali fondanti del fascismo, era già iniziata all’interno della società italiana, il che è anche una prova della sintesi da noi inizialmente preannunciata. La forte crisi capitalistica in atto, sta ora permettendo ai fascisti di cavalcare lo sviluppo di una “offensiva a difesa del lavoratore italiano” che nient’altro è se non una pratica razzista e xenofoba per occupare uno spazio e quindi un ruolo. Di argomentare teoricamente i contenuti di questa “offensiva” i fascisti non si preoccupano, giustamente, molto. Essi ripropongono, di fatto, le fantasie socio-economiche presenti nel “programma sansepolcrista” del ’19 e nella “repubblica sociale” del ’43, naturalmente senza preoccuparsi dei particolari (cioè dei risultati); contemporaneamente proponendo e recuperando, da una parte, i brigatisti neri della “Ettore Muti”, i franchi tiratori di Pavolini e i vari membri di reparti speciali delle polizie fasciste delle varie “Ville Tristi” come esempi paradigmatici per i giovani italiani di oggi e, dall’altra, la rigatteria culturale prodotta da Marinetti e da Evola come elevato bagaglio teorico da essi possedute: tipico esempio di queste realtà di “fascismo sociale del III millennio” operanti sul territorio, è “Casapound”, la quale, non va dimenticato, a Firenze ha pure detto qualcosa di originalmente suocon l’assassinio di due lavoratori senegalesi e il ferimento di altri tre compiuto da un suo dirigente pistoiese. Per i fascisti, lasciare vuoti di riferimenti storici e di contenuti le menzogne pseudo rivoluzionarie dirette, a volte con qualche successo, alle soggettività piccolo borghesi, sottoproletarie ma anche operaie, colpite dalla crisi, non è un problema. Quello che è per loro vitale è convincere il “capitale finanziario” che in questo difficile contesto di grave crisi capitalistica, i fascisti possono essere, almeno in parte, una componente alleata per la sua gestione, dove la variante strategica più elementare può essere quella di trasformare, in quei settori già intercettati e in via di intercettazione, la paura per il futuro in necessità di sicurezza, mentre il percorso operativo, contando come da sempre sull’appoggio e sulle informazioni delle forze istituzionali di repressione, potrebbe inizialmente sostanziarsi in vere e proprie “ronde”, la legge d’altronde c’è già, in funzione anti-immigrante e in truppa di contrasto-provocazione alle iniziative di classe.

 

Diceva il Che che “il marxismo è una delle cose realmente straordinarie che ha prodotto l’umanità, come teoria”: in effetto, per capire il ruolo che il fascismo ha avuto e continua ad avere, l’analisi di classe, l’applicazione del metodo marxista restano per noi appartenenti alle classi subalterne strumenti fondamentali Oggi, ancor più di ieri, la teoria e la prassi si configurano come assolutamente indivisibili.

 

2. Una proposta per dar vita a una Organizzazione comunista rivoluzionaria da costruire nella pratica della lotta di classe.

 

2.1. Presupposti, condizioni iniziali e al contorno che vincolano e polarizzano la nascita dell’Organizzazione.

 

Non avrebbe senso considerare i contenuti della nostra proposta, sviluppati indicativamente a seguito, come un tutto completo e pronto alla applicazione. Il loro ruolo è quello di innescare una riflessione sulla teoria e sulla tattica (organizzazione) comuniste adeguate alla crisi in atto -patita e percepita ora, a differenza del passato, da percentuali visibili di classi subalterne- per dare il via alla costruzione di un coerente percorso politico e organizzativo che abbia come obiettivo strategico la realizzazione di una società socialista.

Completezza, applicabilità e creatività saranno man mano implementate sul teatro concreto dello scontro di classe, se questa proposta “decollerà”. Il suo avvio resta comunque funzione di due presupposti,uno relativo al periodo in atto e l’altro relativo al passato. Presupposti che riteniamo oggi esistenti e che sono:

 

la attualità del superamento del capitalismo, nella specificità della fase presente, globalizzata e imperialistica, anche sulla base oggettiva dell’enorme sviluppo delle forze produttive;attualità e possibilitànon ipotetiche ma assolute,tantonellateoria quanto nella pratica;

 

la comprensione critica degli errori legati alla 1ª esperienza socialista; errori tratteggiati grosso modo, nei loro aspetti fondamentali, nel punto 1. i quali forniscono i necessari legami qualitativi con quel passato.

 

Ci sembra però comunque necessario sottolineare ancora una volta, seppure sotto una angolatura distinta dalla precedente, che le condizionipolitiche, iniziali e al contorno, nelle quali questa nostra proposta viene lanciata, risultano polarizzate da tre dati di fatto che:

 

a. hanno visto e vedono il fallimento dei comunisti nei tentativi concreti da loro fatti per la ricostruzione di una propria organizzazione politica; tentativi più o meno limitati alla celebrazione di riunioni nazionali che -presiedute da soggettività ritenute dirigenti di un movimento comunista che non esiste- non riescono naturalmente ad andare al di là del semplice momento assembleare;

 

b. hanno visto e vedono tutte le formazioni comuniste ossessivamente preoccupate tanto per i periodici appuntamenti elettorali, che sempre le vedranno subordinate e perdenti, quanto per la salvaguardia dei loro piccoli interessi politici, anche funzionali alla perenne riproposizione delle proprie dirigenze;

 

c. hanno visto e vedono il nome di comunista essere semplicemente associato -nonostante le molteplici nascite e presenze di formazioni che se ne richiamano- al nome in sé, senza un qualunque riscontro politico, o solo come riferimento ideale, oppure solo come vettore di dibattito intellettuale ancorché di elevato livello analitico e di interessante elaborazione teorica; tutte queste formazioni risultano accomunate da enormi limiti, tanto nella capacità pratica quanto nella volontà politica, che oggettivamente le impediscono di dar vita a un percorso di necessario confronto critico collettivo che dovrebbe rimettere al centro la costruzione di una organizzazione comunista rivoluzionaria nella quale il marxismo e il leninismo rappresentano lo strumento collettivo e creativo per dirigere lo scontro di classe. Il risultato ultimo si concretizza nella impossibilità strutturale che una o più di esse possano erigersi a riferimento politico unificatore.

 

2.2. Una teoria e una struttura adeguate per implementare il superamento delle relazioni di produzione capitaliste.

 

Sulla base dei due presupposti generali e dei tre dati di fatto sintetizzati nel punto 2.1., si individuano due strumenti primarî di cui dotarsi: il primo, una adeguata teoria rivoluzionaria(una “bussola”); il secondo, una struttura organizzativa di pronta reazione politica (la “Cellula”) che converta i punti fondanti della elaborazione in prassi, realizzando tra esse una ciclicità sinergica. Teoria e struttura permetteranno alla Organizzazione la comprensione -dalla scala territoriale a quella internazionale- dello scontro di classe e l’attivo inserimento, in esso medesimo, dei/delle suoi militanti.

Per fissare le indicazioni generali su cosa intendiamo per teoria rivoluzionaria e struttura organizzativa, separeremo in modo meccanico questi due “strumenti primarî” che sono, invece, assolutamente interdipendenti.

 

2.2.1. La “bussola” come fattore unico per l’orientamento e la navigazione rivoluzionarie.

 

La “bussola” viene costruita dalla Organizzazione attraverso i suoi/sue militanti come un tutto unico, generato dall’amalgama dello studio critico, collettivo e creativo del marxismo e del leninismo e della pratica di classe.

 

Che la incapacità di orientamento politico e la conseguente impossibilità di perseguirne gli obiettivi, a livello di formazioni sociali, o la impossibilità di comunicare e interagire nel contesto nel quale si vive, a livello di soggettività individuale, conducano il soggetto che si trova in tali stati alla emarginazione e alla conseguente disgregazione, è elementarmente vero. E questa è esattamente la situazione, di incapacità, nella quale si trova la potenziale avanguardia rivoluzionaria delle classi subalterne, cioè quelli e quelle che vorrebbero reagire in modo organizzato ed efficace alla barbarie capitalista che ci sta soffocando.

 

Il marxismo e il leninismo rappresentano, appunto, per la potenziale avanguardia il fattore necessario tanto per eliminare l’attuale incapacità di orientamento quanto per permettere la successiva scansione atta al perseguimento degli obiettivi politici della classe.

 

Vediamo sinteticamente perché: il marxismo e il leninismo analizzano le dinamiche politiche delle formazioni sociali secondo la divisione di classe in esse presente, ovvero secondo il modo di come si produce e si distribuisce la ricchezza socialmente realizzata; valutano gli avvenimenti ponendosi direttamente e apertamente nei punti di vista dei diversi interessi di classe e rendendo così comprensibili le concrete cause politiche soggiacenti alle apparenze e alle forme con le quali la borghesia agisce; smascherano come i rapporti connessi con i diritti di proprietà, con la distinzione tra proprietari e nullatenenti, non siano relegabili alla sfera sociologica, come la borghesia riesce a imporre, ma siano direttamente interni alla teoria economica come tale, ovvero dipendano dalle concrete relazioni di produzione esistenti; dimostrano come queste siano responsabili della attuale criminale distribuzione della ricchezza prodotta socialmente e distribuita in poche mani; indicano come oggettivamente queste relazioni di produzione possano venire rovesciate solo dalla formazione sociale che tale ricchezza produce.

 

Altre letture, come si sa, tutte negazioniste del concetto di classe ed essenzialmente elaborate dalla borghesia per la manipolazione della coscienza delle masse popolari, risultano basate sulla religione, sulla razza, sulla nazione, sul corporativismo o su combinazioni di esse; ma anche, ultimamente -e questo è il prodotto diretto di Antonio Negri coadiuvato da soggettività e da segmenti di “movimento” ora sicuri estimatori “grillini”- sul non meglio definito concetto di “moltitudine”, completato dalle forme vuote conosciute come “assemblearismo”, “orizzontalità” e così via. Nessuna di queste letture ha dato, naturalmente, alcun risultato parziale per coloro che vivono vendendo la loro forza lavoro; la crisi attuale lo conferma e continuerà con maggior pesantezza a confermarlo.

 

L’unica “bussola” scientificamente progettata per la emancipazione delle classi subalterne coincide con il marxismo e con il leninismo: attraverso essi, come prima tratteggiato, la realtà sociale viene conosciuta nella sua totalità con gli occhi della classe operaia, riconosciuta oggettiva forza motrice del superamento del modo di produzione capitalistico.

Si tratta quindi, continuando la metafora della bussola, di controllarne ora la “declinazione” in ambiente di capitale finanziario globalizzato. Questo significa, come primo passo, la riappropriazione da parte delle avanguardie comuniste della teoria e della prassi marxiste e leniniste. In particolare pensiamo sia matura, sul fronte economico, la realizzazione di un contributo scientifico collettivo che raccolga e implementi la critica del Che, da lui esplicitata con grande coraggio civile e che aveva come obiettivo quello di suscitare un bilancio sul significato o meno di economia politica socialista. Contributo certo basato sulla analisi dialettica delle copiose esperienze del passato ma che va soprattutto pensato per gli sviluppi futuri.

 

2.2.2. La “Cellula” come struttura operativa e fattore sinergico alla liberazione della soggettività rivoluzionaria: aspetti strategici e tattici.

 

Le forme di organizzazione partitiche riflettono le necessità delle classi sociali che le costruiscono assieme alla contemporanea funzionalità alla fase di scontro. La cancellazione pressoché totale della memoria storica e della coscienza di classe, oggi operanti, indica che la struttura operativa politica adeguata per l’utilizzazione della “bussola” del marxismo e del leninismo coincide con la nascita della Cellula Comunista Rivoluzionaria (CCR), realtà di lotta a struttura cellulare da inserire ovepossibile. La Cellula non è una soluzione nuova -come non lo è iniziare la costruzione di una casa dalle fondamenta e non dal tetto- però, ora, a differenza del passato, il suo inserimento avviene in un ambiente politico altamente degradato e dunque essa assume nuove regole e nuove funzioni. Per questo, la “tessitura” della struttura cellulare è pensata secondo il metodo della minima resistenza derivato da una analisi differenziata dei fenomeni antagonistici.

 

Come si sa, oltre alla lotta di classe, esistono svariati campi polarizzati da contraddizioni non risolubili, tra i quali: quelli dell’economia capitalista del “libero” mercato o del capitalismo monopolista; quelli dei conflitti armati nelle loro varie declinazioni. In questo ultimo campo è interessante confrontare le analogie antagoniste esistenti tra gli iniziali rapporti di forza sotto i qualisi è sviluppato il radicamento delle avanguardie di classe delle masse popolari e quelli sotto i quali si inserisce la proposta politica della CCR. L’analogia è evidente. La fase iniziale, infatti, è per entrambe caratterizzata da: autonomia tattica, chiarezza politica e rapida decisionalità. Condizioni che non possono essere assicurate da una direzione centralizzata la quale non è oggettivamente in grado di intervenire né tempestivamente né materialmente. Questo confronto è: stimolante perché dà una prova della adeguatezza (unica possibile, diremmo) della CCR alla situazione presente; efficace perché le condizioni di entrambe sono condizioni limite, del tutto simili nella forma, il che rende chiara la comprensione del fenomeno e la conseguente possibilità di analogia. Ci limiteremo dunque a una “traslitterazione” della analogia che per la CCR si muove unicamente e assolutamente nella dimensione politica:

 

– la CCR sorge in quanto, di fatto, risultano cancellate tutte le possibilità convenzionali di inserimento di un movimento comunista organizzato nella lotta politica;

 

– la CCR è l’avamposto -numericamente assai inferiore di coloro che rappresenta come classe- nel quale è riposta la volontà di vittoria per l’emancipazione delle masse popolari;

 

– la CCR lotta in un ambiente politico-economico controllato dall’avversario, ragione per la quale le sue possibilità di radicamento si trovano nelle sue capacità di dinamismo, iniziativa, creatività e reazione istantanea a fronte di nuove forme di lotta politica utilizzate dall’avversario;

 

– la CCR adotta opportuni metodi di lotta politica in grado di affrontare un avversario numericamente superiore e molto più dotato di risorse materiali;

– la CCR persegue costantemente i processi di replicazione i quali produrranno salti qualitativi culminanti nella costituzione del partito.

 

Queste argomentazioni dovrebbero giustificare il perché riprendere proprio con questo tipo di struttura, la quale, nelle nostre valutazioni, si andrebbe sviluppando politicamente secondo tempiragionevolmente “brevi” potendo così passare a forme superiori di organizzazione. Nell’arco di questi tempi “brevi”, dove non è difficile poter indurre i rapporti di forza, anche la sola ipotesi di partecipare a competizioni elettorali “borghesi” non presenta né credibilità né senso.

Questa schematica affermazione rimanda al necessario chiarimento (da sviluppare in seguito scientificamente e in maniera esaustiva) sul fondamentale rapporto che i comunisti devono tenere nei confronti dei meccanismi apparentemente democratici della borghesia e delle istituzioni che da tali meccanismi derivano (elezioni, parlamento, eccetera).

Che nel 1945 il problema del suffragio universale, dopo più di venti anni di dittatura terroristica aperta, fosse una conquista, risultava a tutti evidente. La dirigenza del PCI ne fece però un meccanico dogma che, favorendo posizioni politiche confuse e opportuniste, avrebbe poi portato nel 1977 alla nefasta e politicamente concreta dichiarazione dell’allora suo segretario Enrico Berlinguer, che, nel discorso tenuto in occasione della celebrazione del 60° anniversario della Rivoluzione d’ottobre, assumeva la democrazia formale come “valore storicamente universale“. Tale condizionamento ha limitato e disarmato il movimento comunista rivoluzionario che deve operare secondo obiettivi di democrazia reale -il cui obiettivo risiede nella emancipazione economica e politica della classe lavoratrice- che non ha relazioni di parentela con le regole “democratiche” della borghesia. È sempre opportuno, per le decisioni strategiche, fermo restando la diversità delle fasi, non fermarsi alla forma ma arrivare sostanza (di classe):

Soltanto dei mascalzoni o dei semplicioni possono credere che il proletariato debba prima conquistare la maggioranza alle elezioni effettuate sotto il giogo delta borghesia, sotto il giogo della schiavitù salariata, e poi conquistare il potere. È il colmo della stupidità o dell’ipocrisia; ciò vuol dire sostituire alla lotta di classe e alla rivoluzione le elezioni fatte sotto il vecchio regime, sotto il vecchio potere” (tratto da Saluto di Lenin ai comunisti italiani, francesi e tedeschi, Opere, Ed. Riuniti, vol. XXX, pagg. 40-49).

I comunisti, insomma, devono vedere nelle regole “democratiche ” borghesi uno strumento da usare per far avanzare la lotta rivoluzionaria delle masse popolari per il superamento del sistema capitalistico.

Argomentato così, in modo sintetico, l’iniziale rapporto della CCR con i meccanismi della democrazia formale, indichiamo a seguito gli aspetti caratterizzanti e fondanti la specificità della CCR medesima:

 

1) La CCR deve essere l’espressione unica dei compagni che la compongono, deve operare come un unico collettivo, in cui i compagni elaborano e producono lavoro politico collegialmente, all’interno dell’analisi e del metodo marxista e leninista.

 

2) La CCR deve svolgere la funzione di formazione dei quadri militanti, praticare il metodo della autoformazione, della partecipazione collegiale dei quadri militanti all’elaborazione dell’analisi teorica e alla sua conseguente organizzazione pratica, deve essere il perno principale della formazione e della maturazione dei compagni. La CCR deve essere percepita e riconosciuta dai militanti come luogo di crescita culturale e politica che consenta ad essi il salto di qualità necessario per avvicinarsi al “Professionista Rivoluzionario”.

 

3) La CCR deve darsi una propria organizzazione che la metta nella condizione di poter essere parte attiva all’interno delle contraddizioni e delle lotte che si sviluppano sui territori e nei luoghi di lavoro, deve operare affinché l’egemonia della teoria rivoluzionaria primeggi nei confronti delle ancor giuste rivendicazioni meramente sindacali o sociali;

 

4) La CCR deve svolgere, ove possibile, il ruolo di agitazione sociale e deve essere riconosciuta dalla classe proletaria come unico riferimento politico rivoluzionario, per la funzione svolta e per la coerenza che mostra nello svolgere il suo lavoro politico.

 

5) La CCR deve sviluppare in modo sistematico, considerando la fase di capitale finanziario globalizzato nella quale opera, l’analisi e la comprensione dello stato dell’arte della lotta di classe a livello internazionale. Il fronte dello scontro non ha soluzione di continuità e la pratica concreta dell’internazionalismo proletario diviene sia un potente strumento di crescita politica soggettiva e collettiva, sia un ponte di solidarietà di classe costruito per essere percorribile nei due sensi.

 

6) I compagni militanti che aderiscono alla CCR devono dedicare il loro tempo alla causa rivoluzionaria, condurre una vita politica, lavorativa e sociale in piena coerenza con la impegnativa scelta decisa con la loro adesione. In questo preciso contesto, rischiando anche la risibilità, va riaffermato che i comunisti devono essere portatori di valore morale, di coerenza tanto nella lotta politica quanto nella vita e di coraggio. Esattamente nello stesso modo dei compagni che ci hanno preceduto e che hanno affrontato i rischi che il momento storico riservava loro: le compagne e i compagni partigiani, le compagne e i compagni lavoratori, i compagni braccianti. Tutto ciò li ha portati a essere riconosciuti come riferimento politico unico delle masse proletarie.

 

7) La CCR deve usare come metodo di discussione e decisione il “Centralismo Democratico”, metodo che viene esteso anche al dibattito tra le varie CCR.

 

8) Le replicazioni prodotte dalle CCR individueranno forme di comunicazione che le mettano in grado, come struttura, di condividere lo sviluppo delle lotte e dell’analisi che andranno a prodursi.

 

9) La CCR dovrà individuare, a seconda della sua formazione e organizzazione, la forma necessaria di finanziamento.

 

10) Le CCR dovranno costituire, in tempi brevi, un sistema di solidarietà economica e legale a salvaguardia dei compagni militanti.

 

11) Le CCR dovranno darsi, quando collegialmente verrà ritenuto necessario, degli strumenti di

coordinamento, territoriale, regionale e nazionale.

 

Questi 11 punti restano naturalmente indicativi ma sono fermi nel voler trasmettere la volontà e la convinzione del tentativo di aggregazione di soggettività proletarie potenzialmente rivoluzionarie. Negli 11 punti ne compare uno, il punto 5., che crediamo necessario -similmente a quanto prima fatto per chiarire il portato rivoluzionario concreto dei termini “marxismo” e “leninismo”- precisare. Oggi per “pratica concreta dell’internazionalismo proletario”, intendiamo: le conoscenze reali, materializzate attraverso scambi tra militanti comunisti, dei rispettivi scenari di lotta; i momenti comuni di studio e di solidarietà tra militanti comunisti che intercettano le rispettive strategie di classe tanto proprie quanto dell’avversario; la definizione di progetti comuni per la nascita di strutture culturali e di propaganda, ma anche legali, rispettivamente per la implementazione viva del materialismo storico e del materialismo dialettico e per la difesa dei militanti comunisti. La priorità degli scambi tra militanti andrà alle situazioni che vedono il movimento comunista “in prima linea” nello scontro di classe, costruendosi contemporaneamente le condizioni -possibilità di comunicare e di movimento- per la realizzazione della pratica internazionalista così intesa.

 

3.Non abbiamo che poco tempo.

 

In questo Appello-Proposta abbiamo argomentato criticamente:

 

a) su come il Movimento Comunista, all’inizio del secolo XX, abbia “postulato” la attualità dellarivoluzione proletaria e come su tale convinzione abbia costruito, con estremo rigore e strenua lotta, la sua struttura organizzativa la quale gli ha permesso la vittoria attraverso la Rivoluzione Russa dell’Ottobre;

 

b) su come quella vittoria generata dalla conseguente applicazione del “postulato” abbia marcato un metodo a livello mondiale e come al sorgere delle successive contraddizioni interne al Movimento Comunista (usiamo questa forma per semplificare il tutto), una parte di esso, tra gli anni ’60 e la metà degli anni ’70 circa, abbia “postulato” la attualità della rivoluzione proletaria mondiale nella accezione della guerra popolare di lunga durata.

 

Per avanzare la convinzione di:

 

c) come oggi:

 

– da una parte considerando gli insegnamenti che vengono dalla passata sconfitta strategica della 1ª esperienza socialista;

 

– dall’altra essendo immersi nella presente enorme crisi del capitale finanziario globalizzato anche e però caratterizzato dalla esistenza di una quasi illimitata potenza delle forze produttive;

 

si riapra la attualità, sotto precise condizioni soggettive e organizzative, del superamento delle relazioni di produzione capitalistiche.

 

Non abbiamo che poco tempo per organizzarci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALLEGATI

 

 

 

 

 

I “21 PUNTI DELLA III INTERNAZIONALE” (1920)

 

 

I “10 PUNTI DEL CONGRESSO DI LIVORNO” (1921)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I “21 PUNTI DELLA III INTERNAZIONALE”

1. – La propaganda e l’agitazione quotidiana devono avere un carattere effettivamente comunista e conformarsi al programma e alle decisioni della III Internazionale. Non giova parlare della dittatura del proletariato come d’una formula appresa e corrente, ma far nascere dalla vita quotidiana la necessità di questa dittatura. La stampa, le riunioni pubbliche dovranno bollare sistematicamente la borghesia e i riformisti di ogni gradazione.

2. – I riformisti e i centristi debbono essere allontanati da tutti i posti di responsabilità.

3. – La lotta di classe comporta generalmente un periodo di guerra civile. I comunisti non possono confidare nella legalità borghese e debbono creare, parallelamente all’organizzazione legale, una organizzazione clandestina. La concomitanza delle due azioni è indispensabile dovunque lo stato d’assedio o le leggi d’eccezione riducono le possibilità legali.

4. Un’agitazione sistematica aperta e illegale deve essere svolta fra le truppe.

5. – Un’agitazione razionale è indispensabile nelle campagne. Infatti la classe operaia non può vincere se non è sostenuta almeno da una parie dei lavoratori rurali.

6. – Ogni partito comunista deve denunciare il social patriottismo (il socialismo che accetta la tesi della difesa nazionale in regime capitalista) e il social pacifismo (quello che ammette la possibilità, in regime capitalista, di sopprimere la guerra con l’arbitrato).

7. – Ogni partito comunista deve rompere con la politica riformista e centrista, altrimenti la III Internazionale somiglierebbe troppo alla seconda.

8 – Ogni partito comunista deve denunciare l’imperialismo coloniale e sostenere i movimenti di emancipazione delle colonie, mantenere fra le truppe metropolitane una agitazione continua contro ogni oppressione dei popoli coloniali.

9. – Ogni partito comunista dovrà svolgere una propaganda sistematica nel seno dei sindacati e delle cooperative: vi saranno formati nuclei comunisti, che saranno subordinati ai partito.

10. – Ogni partito comunista dovrà combattere l’Internazionale di Amsterdam (Trade-unions, C.G.T. francese, Federazione americana del Lavoro, C.G.L. tedesca, ecc.) e concorrere a creare l’Internazionale rossa dei sindacati.

11. – Ogni partito comunista dovrà rivedere la composizione del suo gruppo parlamentare e subordinarne il comportamento alle decisioni del Comitato Centrale.

12. – I partiti saranno centralizzati, stretti da una disciplina di ferro e daranno larghi poteri ai loro organismi centrali.

13. – Essi procederanno a una epurazione periodica, per eliminare gli elementi piccolo-borghesi.

14. – Essi sosterranno senza riserve le repubbliche sovietiche nelle loro lotte con la controrivoluzione. Essi predicheranno senza stancarsi il rifiuto dei lavoratori di trasportare le munizioni destinate ai nemici di queste repubbliche e proseguiranno la propaganda fra le truppe mandate contro di esse.

15. – Essi correggeranno i loro programmi, e ne elaboreranno dei nuovi, adattati alle condizioni speciali del loro paese, e concepiti nello spirito dell’Internazionale Comunista.

16. – Tutte le decisioni del Congresso dell’Internazionale Comunista, così come quelle del Comitato Esecutivo, sono obbligatorie per i partiti affiliati. Ma l’Internazionale e il suo Esecutivo terranno conto delle particolari condizioni di lotta nei differenti paesi e non adotteranno risoluzioni generali obbligatorie che nelle questioni dove sono possibili.

17. – I partiti aderenti all’Internazionale Comunista si denomineranno: Partito Comunista di …… (Sezione della III Internazionale Comunista).

18.Le organizzazioni dirigenti della stampa di ogni partito pubblicheranno tutti i documenti ufficiali importanti del Comitato Esecutivo.

19. – I partiti già aderenti all’Internazionale e quelli che aspirano all’adesione dovranno, entro quattro mesi, convocare un congresso straordinario, per pronunciarsi sulle condizioni.

20. – I partiti che vorranno aderire alla III Internazionale, e che non hanno ancora modificato radicalmente la loro antica tattica, dovranno curare che gli organismi centrali siano composti, per due terzi, di mèmbri che. prima del II Congresso si siano già pronunciati per la III Internazionale. Si potranno fare eccezioni, con l’approvazione del Comitato Esecutivo.

21. – Gli aderenti di un partito, che respingeranno le condizioni e le tesi stabilite dall’Internazionale Comunista, dovranno essere esclusi.

Condizioni per l’ammissione dei partiti nazionali, stabilite
dal III Congresso dell’Internazionale Comunista (1920)

I “10 PUNTI DEL CONGRESSO DI LIVORNO” (1921)

1. – Nell’attuale regime sociale capitalista si sviluppa un sempre crescente contrasto fra le forze produttive ed i rapporti di produzione, dando origine all’antitesi di interessi ed alla lotta di classe fra il proletariato e la borghesia dominante.

2. – Gli attuali rapporti di produzione sono protetti e difesi dal potere dello Stato borghese che. fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l’organo della difesa degli interessi della classe capitalistica.

3. – II proletariato non può infrangere ne modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione da cui deriva il suo sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese.

4. – L’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il partito politico di classe.

Il Partito comunista riunendo in sé la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici, volgendoli dalle lotte per gli interessi di gruppi e per risultati contingenti alla lotta per l’emancipazione rivoluzionaria del proletariato.

Il Partito ha il compito di diffondere nelle masse la coscienza rivoluzionaria, di organizzare i mezzi materiali di azione e di dirigere, nello svolgimento della lotta, il proletariato.

5. – La guerra mondiale, causata dalle intime, insanabili contraddizioni del sistema capitalistico che produssero l’imperialismo moderno, ha aperto la crisi di disgregazione del capitalismo in cui la lotta di classe non può che risolversi in conflitto armato tra le masse lavoratrici ed il potere degli Stati borghesi.

6. – Dopo l’abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell’apparato di stato borghese e con l’instaurazione della propria dittatura, ossia basando le rappresentanze dello Stato sulla classe produttiva ed escludendo da ogni diritto politico la classe borghese.

7. – La forma di rappresentanza politica nello Stato proletario è il sistema dei Consigli dei lavoratori (operai e contadini), già in atto nella Rivoluzione proletaria mondiale e prima stabile realizzazione della dittatura proletaria.

8. – La necessaria difesa dello Stato proletario contro tutti i tentativi controrivoluzionari può essere assicurata solo col togliere alla borghesia ed ai partiti avversi alla dittatura proletaria ogni mezzo di agitazione e di propaganda politica e con la organizzazione armata del proletariato per respingere gli attacchi interni ed esterni.

9. – Solo lo Stato proletario potrà sistematicamente attuare tutte quelle successive misure di intervento nei rapporti della economia sociale con le quali si effettuerà la sostituzione del sistema capitalistico con la gestione collettiva della produzione e della distribuzione.

10. – Per effetto di questa trasformazione economica e delle conseguenti trasformazioni di tutta l’attività della vita sociale, eliminata la divisione della società in classi, andrà anche eliminandosi la necessità dello Stato politico, il cui ingranaggio si ridurrà progressivamente a quello della razionale amministrazione delle attività umane.

Approvato dal I Congresso del Partito Comunista d’Italia (1921)