“Nazionalizzazioni” e “Privatizzazioni”: una ciclicità ricorsiva necessaria alle specifiche caratteristiche del capitalismo italiano.

Una premessa comunista.

La guerra imperialista ha accelerato e acutizzato a un grado estremo il processo di trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato”.

Questa citazione -la prima delle sei prodotte da distinte soggettività del movimento comunista, che in totale utilizzeremo in questo contributo- appartiene a Lenin (“Stato e rivoluzione”, aprile 1917) e la sintesi che essa proietta è l’esatta valutazione (scientifica, si potrebbe aggiungere) del percorso che iniziava allora a concretizzarsi nel modo di produzione capitalistico: cioè dell’unificazione di fatto organica dei monopoli con lo Stato borghese.

Dovrebbe essere una “ovvietà” per tutte le organizzazioni comuniste di oggi, ancora di più che nell’aprile del 1917, il riferirsi a questa sintetica valutazione di Lenin come base per definire ed indicare senza ambiguità, tanto tatticamente che strategicamente, cosa significa “nazionalizzare” nel 2014. Ma non è così: questa “ovvietà” è disattesa dalla parte più conosciuta di esse. Perché? Estraendo, anche storicamente, i contenuti e i “meccanismi” soggiacenti in questa “ovvietà” lo dovremmo dedurre.

La “ciclicità ricorsiva”, a grandi tratti, del privatizzare-nazionalizzare sotto il fascismo.

L’ondata rivoluzionaria, protagonizzata dal movimento operaio, che nella congiuntura politico-economica immediatamente posteriore alla prima guerra mondiale percorse anche il nostro paese (biennio rosso ’19-’20), pose con urgenza alla borghesia la necessità di approntare una qualche stabilizzazione per il capitalismo italiano. Il suo storico e strutturale rachitismo, lo squilibrio comunque endemico tra il settore industriale, il settore bancario a grande concentrazione e la grande proprietà agraria fortemente arretrata, obbligatoriamente indicarono il raggiungimento di questa stabilizzazione attraverso la reiterazione dei metodi di compressione politica ed economica sopra le masse lavoratrici e consumatrici. Il fascismo garantì questa stabilizzazione alla borghesia in quel contesto storico e lo fece mediante la forma che quindi risultava obbligata, e cioè:

non con una ordinaria sostituzione di un governo borghese con un altro, ma con il cambiamento di una forma statale del dominio di classe della borghesia -la democrazia borghese- con un’altra sua forma, con la dittatura terrorista aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario” (Dimitrov al VII Congresso della Internazionale Comunista).

In questo scenario di aperta dittatura terroristica, il fascismo inizierà -diciamo dal 1922 al 1925- il suo lavoro di amministratore delegato del capitale finanziario italiano con una maschera, come già promesso da Mussolini poco prima della sua ascesa al potere, assolutamente liberista. Sinteticamente: politiche di privatizzazione di aziende e servizi pubblici (per esempio, le compagnie dei telefoni e delle assicurazioni); riduzione della spesa pubblica (per esempio, licenziamento di circa 65.000 dipendenti dello Stato di cui circa 40.000 delle ferrovie); riforma tributaria a favore del capitalismo industriale e degli agrari (per esempio, abrogazione della legge sui valori industriali e bancari che obbligava alla registrazione dei loro fondi).

Misure complessive di liberalizzazione che, chiaramente, si realizzavano in un quadro dal quale erano state eliminate tutte le possibilità di organizzazione ed espressione autonoma dei lavoratori delle città e delle campagne e rimosse tutte le garanzie contro il loro licenziamento.

Ma lo stesso fascismo, pochi anni dopo, non avrà nessun tipo di problema a cambiare la prima maschera liberista con una seconda maschera statalista. Lo farà, in modo ufficiale-istituzionale, nel 1933 attraverso la costituzione dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI). L’IRI assumerà infatti il ruolo di ente statale di salvataggio per banche: Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Crediti Italiano, per citare le principali; e per società industriali: Edison, Terni, Ansaldo, Ilva, Orlando, Cantieri riuniti dell’Adriatico, Alfa Romeo, per citare le principali, che avevano subito dopo il colpo del 1927 (deflazione di carattere nazionale) quello definitivo, di grazia, della crisi del 1929 (recessione di carattere mondiale).

Naturalmente, il passaggio “dal privato” “allo Stato”, non modificò di una virgola la situazione delle classi subalterne coinvolte in questa permutazione e, naturalmente, non poteva essere altrimenti.

La “ciclicità ricorsiva” lasciò operai, braccianti, mezzadri e lavoratori subordinati alla completa mercé delle necessità del capitale finanziario.

La “ciclicità ricorsiva”, a grandi tratti, del privatizzare-nazionalizzare sotto la repubblica.

Contesto:

la congiuntura politico-economica immediatamente posteriore alla seconda guerra mondiale, produsse anche nel nostro paese una forte destabilizzazione del capitalismo. Ora, però, tale destabilizzazione derivava dalla caduta del fascismo, la quale era stata, anche, realizzata da una forte avanguardia comunista che, dotata di massa critica sufficiente, era comunque decisa ad imporre una legittima forma socialista di produzione in Italia. Ne è prova indiscutibile la Costituzione stessa, partorita dal compromesso scaturito dal non ancora risolto scontro di potere tra classe operaia e borghesia. Da questa indefinizione politico-militare applicata alle relazioni di proprietà “repubblicane”, nasce il Titolo III della Costituzione che nell’Articolo 41 circoscrive libertà d’iniziativa economica nel quadro dell’utilità sociale; che negli Articoli 42 e 43 prevede le possibilità di espropriazione; che nell’Articolo 46 prevede la possibilità della gestione operaia delle fabbriche. La Costituzione italiana, insomma, oltre a svelare il soggiacente equilibrio dei rapporti di forza allora esistenti nella lotta di classe, mostra contemporaneamente il limite massimo di conquiste raggiungibile all’interno della democrazia borghese; nella cornice però, particolare non secondario, di quei rapporti di forza.

Lo stesso Togliatti lo riconoscerà in modo indiretto (ormai staticamente in sicurezza la costruzione della sua metafisica ipotesi di “via italiana al socialismo”) nel suo intervento, novembre 1957, alla riunione di Mosca dei 64 partiti comunisti e operai:

Appena finita la guerra , vi era in Italia una situazione nella quale non sarebbe stato difficile prendere il potere ed iniziare la costruzione di una società socialista. La maggior parte del popolo avrebbe potuto seguirci. Ma il paese era occupato dagli eserciti americani e inglesi e questa via non si poté prendere, perché una insurrezione contro questi eserciti sarebbe stata politicamente un assurdo, e destinata a sicura sconfitta.

Periodo 1948- fine anni ‘80:

non vi è quindi ragione di alcuna meraviglia che l’IRI, creatura del fascismo, venisse dopo la sua caduta non solo traghettato indenne nella nuovissima repubblica ma anzi potenziato nel tempo; dirimente, la dimensione da esso acquisita nel 1980: più di 1.000 società con più di 500.000 dipendenti. In questo contesto, a partire dal 1953, il capitalismo monopolistico di Stato decideva di detenere il controllo del settore energetico dando per questo vita all’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), per poi passare, nel 1962, alla “strategica” “nazionalizzazione” dell’industria elettrica con la nascita dell’ENEL. Le aziende private di questo settore furono espropriate e per i loro impianti, passati all’impresa di Stato, ricevettero cospicui indennizzi. Così cospicui da spingere la Montecatini, nel 1963, ad acquisire la SADE (Società Adriatica di Elettricità) per poi “venderla” alla stessa ENEL.

Diceva a questo proposito, nel luglio del 1964, un mese prima di morire, ancora Palmiro Togliatti: “Per la nazionalizzazione elettrica sono state imposte, a favore delle società espropriate, condizioni tali da sfiancare l’economia nazionale per un buon numero di anni” (ma nonostante questo) “sino ad ora … il settore pubblico non è stato capace di contestare le leggi del settore privato.

Naturalmente “questa capacità” il settore pubblico non l’avrà nemmeno in futuro, né, facile previsione anche questa, avrebbe mai potuto averla. La citazione è stata riportata perché rappresenta il requiem che il massimo esponente del PCI suona, di fatto quasi senza accorgersene, al suo tentativo di realizzare con le “riforme di struttura” -delle quali le “nazionalizzazioni” erano uno strumento importante ed anche giustificabile attraverso l’uso di un marxismo reso di fatto per la seconda volta “inoffensivo e canonizzato”- quelle condizioni atte ad aprire il rubinetto per lo scorrimento di quella che avrebbe dovuto essere una placida “via italiana al socialismo”.

Periodo inizio anni ‘90-2007:

negli anni ’90 sulla spinta di peso mondiale praticata dall’imperialismo statunitense -anche motivata dalla euforia causata dalla implosione sovietica che permette al modo di produzione capitalistico l’inizio di nuovi rapporti politici, economici e militari con la concreta possibilità di una nuova ripartizione dei mercati- viene nuovamente reiterata, anche in Italia, la “liberalizzazione”.

Concentrato il fuoco contro lo Stato burocratico negatore della libera iniziativa e per questo necessariamente parassita, sprecone, eccetera, si iniziano a smembrare i gruppi e le imprese di Stato. Addio IRI, ENI, ENEL, EFIM, eccetera. Sull’ENI (passata definitivamente a società per azioni nel 1992) è il caso di ricordare il balletto comico-criminale con la Montedison (Raul Gardini), durato due anni (1988-1990), iniziato quindi con “anticipo”, e consumatosi in una girandola di cicli ricorsivi che alla fine hanno visto Gardini ricedere tutte le attività chimiche all’ENI ottenendone un compenso di 2.805 miliardi di lire: un prezzo assolutamente esorbitante, assolutamente ingiustificato “per il mercato”.

Comunque, alla fine, il passaggio dallo “Stato” al “privato” sarà un fatto.

Le classi lavoratrici degli anni ’90 subiscono dunque l’esperienza inversa di quella dei loro nonni o bisnonni nella seconda metà degli anni ’20 e possono verificare, in “corpore vili”, come il ciclo ricorsivo privatizzazione – nazionalizzazione goda, relativamente alle loro condizioni complessive di vita, della proprietà invariantiva. Naturalmente, non sarà così per i padroni, per la classe dirigente: la loro ricchezza continuerà a crescere. Ricordiamo i regali che lo Stato ha fatto al Gruppo Riva (l’Ilva), al Gruppo Lucchini (Acciaierie di Piombino), per citare due attori, tra gli altri, oggi più nominati e che hanno spremuto sino alla morte fisica questi due impianti produttivi così come hanno fatto con tanti operai che ci lavoravano, e con tanti cittadini che ci convivevano.

Oggi, come conseguenza della profonda crisi economica e finanziaria che dal 2007 ha penetrato il modo di produzione capitalistico, la controtendenza alla (ultima fase di) “privatizzazione” riscuote trasversali consensi, sia nazionali che internazionali: per questi, ne ricordiamo uno per tutti, fa testo quello di Alan Greenspan, già direttore della Banca Centrale sotto Reagan (!), che dichiarò (2009) essere necessaria una temporanea “nazionalizzazione” delle banche del suo paese.

Perfettamente in linea, dunque, la posizione di Corrado Passera, che conoscendo bene le proprietà del “ciclo ricorsivo”:

– nel 2008, come massimo dirigente della banca Intesa-Sanpaolo, guida la (disastrosa) privatizzazione dell’Alitalia a favore dei 20 “capitani coraggiosi e patrioti” (tra i quali i Riva dell’Ilva);

– nel 2012, a capo del ministero dello Sviluppo Economico, si dichiara non contrario alla confisca dell’Ilva del Gruppo Riva.

Se è chiara la posizione dei “padroni”, resterebbe invece necessaria una qualunque spiegazione da parte dei dirigenti (che ci risparmiamo di elencare) di una sinistra “radicale” o dichiaratamente comunista, sul perché dell’analoga loro spinta alla (ri)“nazionalizzazione” di imprese decotte come l’Ilva: chi pagherà (la Costituzione prevede un indennizzo) realmente e quanto? Come sarà realizzata concretamente e con che obiettivi politici ed economici la (ri)“nazionalizzazione”?

Quando questa spinta verso la (ri) “nazionalizzazione” si presenta con qualche indicazione di percorso da compiere, essa rimane, sempre e comunque, totalmente interna alla istituzionalità esistente. È il caso, per fissare un esempio, della posizione di Guido Viale (vedi “il manifesto: “Nazionalizzazione: non basta la parola” del 2012; “Caso Ilva, Riva non è l’eccezione del 2013; “La lezione del caso Electrolux” del 2014); posizione che curiosamente risulta, tra l’altro, compatibile con quella Naomi Klein e Avi Lewis riguardante il caso argentino, tratteggiato a seguito.

Il caso argentino: dai padroni agli operai, dagli operai ai padroni. Non basta “nazionalizzare” e neppure “espropriare”.

Vale la pena, per sottolineare come il “ciclo ricorsivo” si ripeta senza danni per il capitale e contemporaneamente esprima una “legge” più generale, riesaminare come iniziò e come finì la crisi argentina del dicembre 2001. Il capitalismo dipendente argentino e la classe politica dirigente che lo rappresentava, avevano portato il paese alla bancarotta ed al (conseguente) caos. La maggioranza delle classi subalterne -operai, braccianti, piccoli e medi borghesi rurali ed urbani- erano concretamente ridotte alla povertà. Questo segmento maggioritario della popolazione reagì però -all’attacco alle proprie condizioni materiali elementari di sopravvivenza, perpetrato contro di lui tanto dalla sua borghesia nazionale, serva dell’imperialismo, quanto dall’imperialismo stesso- con estrema forza e determinazione. Questa reazione popolare produsse i seguenti notevoli ed interdipendenti risultati:

– le manifestazioni di massa e gli scontri di piazza, dove la polizia uccise almeno 30 persone, obbligarono, in 20 giorni, 4 presidenti della repubblica (!) a fuggire l’uno dopo l’altro;

– le lotte dei lavoratori nei propri luoghi di lavoro, appoggiati dalla popolazione locale, portarono al “recupero” delle fabbriche “serrate” dai capitalisti (più precisamente, vennero occupate non solo “fabbriche”, ma centri di produzione e di servizi: dalla alimentazione al vetro, passando per la cosmetica e la metallurgia).

Del tutto comprensibile la solidarietà e l’interesse generalizzato che tutti manifestarono “per gli operai che avevano occupato le fabbriche dei padroni mettendole poi in produzione”. Paradigmatiche della valenza data da una certa sinistra -latinoamericana, ma anche europea- al “fenomeno” argentino, cioè di come doveva oggi essere impostata la lotta per il superamento del capitalismo, sono le riflessioni del 2004 dei documentaristi Naomi Klein e Avi Lewis: “Non è sufficiente elaborare solo teorie economiche alternative. Occorre anche iniziare a validarle. E questo è ciò che avviene in Brasile, con il “Movimento dei Senza Terra” e qui in Argentina con l’occupazione delle fabbriche che realizza la vera democrazia operaia in ogni luogo di produzione recuperato. Questa è la cosa più incoraggiante per la gente di tutto il mondo. La gente ha il diritto a riprendersi queste imprese. Ci sono imprese statali regalate a imprese private e che ancora vengono sussidiate con i soldi della gente: accade con le linee aeree, con i treni. Le gente è stanca e vuole virare verso percorsi di rinazionalizzazione. Ma il problema è: si può rinazionalizzare democraticamente? La soluzione sta nel garantire in questo percorso la partecipazione dei dipendenti e degli utenti. Tutto questo rimette all’ordine del giorno temi fondamentali come democrazia diretta, democrazia partecipativa, diritto al lavoro, microimprese come risposta alla globalizzazione; ma contemporaneamente dimostra l’esistenza di alternative, di riposte, di altre forme di maneggiare l’economia.”

Indipendentemente da tutti i cappelli che le furono messi, l’occupazione operaia -o “recupero” come i lavoratori argentini lo hanno chiamato- dei luoghi di lavoro venne realizzata in più di 200 fabbriche di tutto il paese con rispettive scale occupazionali che andavano da 10 sino a 800 dipendenti.

Sequestrati con misure di fatto ai padroni i “loro” mezzi di produzione, le “loro” materie prime, i “loro” edifici, eccetera, i lavoratori iniziarono a gestire la produzione nel suo complesso: salari, organizzazione interna, commercializzazione, tutto era nelle loro mani.

Nel vuoto di potere che caratterizzò il paese in quel periodo del 2001-2002, si crearono inoltre “degli spazi politici” per applicare alle fabbriche occupate gli equivalenti argentini degli articoli 41, 42, 43 e 46 della Costituzione italiana.

Naturalmente, quando la composita ma “convincente” ed operativa “comunità internazionale” nella sua componente politica e finanziaria, capì, e decise, che il “vuoto di potere” doveva essere nuovamente riempito dalla borghesia argentina, i vecchi padroni e le vecchie interpretazioni costituzionali e legali rientrarono senza colpo ferire. Di “recuperi”, all’oggi, ne sopravvivono due, ormai totalmente o parzialmente omologati: ovvero, rispettivamente, l’Hotel Bauen a Buenos Aires, con 47 dipendenti e la fabbrica di ceramiche Zanon a Neuquen, con 400 dipendenti.

Vi è un obbligato raffronto tra l’esperienza di espropriazione praticata dai lavoratori argentini e la sintesi scientificamente costruita da Engels che tratta delle condizioni imprescindibili per la espropriazione operaia dei mezzi di produzione dei capitalisti:

Il proletariato s’impadronisce del potere dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato.

Anche una parte della “ovvietà” dell’inizio si vede così precisata nel contenuto e nel metodo. Per rovesciare i vecchi rapporti di produzione e dunque poter davvero espropriare, bisogna prima rovesciare la vecchia sovrastruttura, non l’inverso.

La nostra debolezza non ci permette di commettere errori: a cominciare dal livello delle parole d’ordine.

Insomma, la cosa è chiara. Anche in un contesto di forte crisi capitalistica, incluso in presenza di un clima quasi preinsurrezionale come in Argentina, e comunque si parta nel “ciclo ricorsivo”, cioè: dalla Stato al privato (parte sana dell’impresa statale che va ai capitalisti) o dal privato allo Stato (indennizzi “fuori mercato” ai capitalisti), la lotta per l’emancipazione delle classi subalterne non farà per questi cambi interni al capitalismo monopolistico di Stato un solo passo avanti.

Questa “diagnosi” è (con sufficienza), dichiarata esatta da tutti coloro che sviluppano la loro lotta politica partendo da una analisi di classe. A partire da questa comune “diagnosi”, e limitandoci ovviamente al tema in oggetto, quella parte di organizzazioni comuniste che fa propria la soluzione “nazionalizzazione” (caso Ilva), è necessariamente obbligata a sfornare due puntualizzazioni in sequenza, ovvero che:

– la soluzione della “nazionalizzazione” deve essere considerata una parola d’ordine “tattica”;

– lo sviluppo di questa parola d’ordine, vista anche la debolezza comunista, va incernierato alla Costituzione (cioè, in particolare agli Articoli già citati), partendo dal supposto gradimento che la Costituzione stessa riceverebbe da una parte consistente delle classi subalterne.

Ma la scelta della “tattica” di tipo operativo (non ideologico, come fascismo-antifascismo) è funzione dei rapporti di forza e dunque per puntare seriamente sulla applicazione “tattica” operativa della Costituzione bisognerebbe essere in quei rapporti di forza che la Costituzione produssero; non certo in quelli in cui ora ci troviamo.

Vi è un raffronto utile da fare attraverso Vo Nguyen Giap -per fare un esempio estremo, e quindi meglio comprensibile, di lotta di classe- per situazioni rette da rapporti di forza assolutamente squilibrati del come “sia possibile vincere il più forte col più debole ed il meglio armato con il peggio armato” solo partendo dalla impostazione strategica di una “guerra di guerriglie” per arrivare poi alla decisiva “guerra di movimento”.

Per questo, nella compatibilità della esemplificazione utilizzata rispetto ai rapporti di forza e delle leggi della lotta di classe, oggi, le parole d’ordine devono essere generate e combattute in funzione di obiettivi concreti raggiungibili.

La borghesia continua a mantenerci in una fase di “guerra di guerriglie” politica e di conseguenza le pratiche di populismo ed opportunismo elettorale, le uniche che razionalmente giustifichino la linea della (ri)“nazionalizzazione”, necessariamente espresse attraverso parole d’ordine generali, non fanno che rafforzare il muro di separazione esistente tra noi e la classe impedendoci di crescere realmente nei rapporti di forza rivoluzionari.

Il contributo soggettivo o collettivo alla ripresa di questa crescita, stando con convinzione nell’altra parte di organizzazioni comuniste, passa anche da un ineludibile confronto sulla saldatura della catena teoria-prassi, iniziando secondo questa sequenza.

Cellula Comunista Rivoluzionaria nel Coordinamento Comunista Toscano.

L’eredità del Che nelle guerriglie Centro Americane nel periodo dal 1966 al 1996.

PER UNA COMMEMORAZIONE MILITANTE di Ernesto Che Guevara, comunista.

9 ottobre 1967 – 9 ottobre 2013

 

cheguevara

L’eredità del Che nelle guerriglie Centro Americane nel periodo dal 1966 al 1996.

 

0. Premessa.

Separare il Centro America dal contesto continentale dell’azione del Che e di Cuba, è senz’altro una forzatura. Il Sud America -Argentina, Cile, Uruguay, Brasile, Bolivia, Colombia, Venezuela- è stato, infatti, teatro importante di lotta armata per il socialismo che sempre ha avuto come riferimento la figura complessiva del Che e spesso il suo appoggio personale. La separazione meccanica risponde quindi alla necessità di isolare “il fenomeno” per poterlo minimamente analizzare al fine di evidenziare alcuni dei contributi originali, e in questo caso innovativi, di quella guerra popolare che le forze rivoluzionarie svilupparono creativamente in quella specifica regione. Guerra popolare la quale rappresentò allora, nella decade degli ’80, il punto più alto dello scontro con l’imperialismo statunitense.

Pur semplificando il compito con la sola focalizzazione centroamericana, il tema resta molto vasto e molto complesso e di conseguenza per parlarne in tempi compatibili con l’iniziativa si è dovuto inevitabilmente ricorrere ad estreme sintesi.

 

1. Costruire in Centro America, sulla base dell’esperienza di Cuba, le condizioni per il socialismo attraverso l’unico mezzo a disposizione: la guerra popolare.

 

Il Centro America è stato immerso sino ai primi decenni del secolo XIX in una piena situazione coloniale, cioè in una situazione nella quale un popolo è governato solamente in funzione degli interessi economici delle classi dominanti di una nazione straniera. La struttura della società centroamericana rispondeva infatti integralmente agli interessi della nobiltà e dell’alta borghesia spagnole nella correlazione di potere, all’interno di quello Stato monarchico europeo, che le legava.

Questa situazione produsse di conseguenza una peculiare classe dirigente autoctona, conosciuta come “criolla”, la quale, composta esclusivamente dai figli degli spagnoli nati in America, era dirigente solo “a metà”. Forte economicamente, era infatti priva del controllo dello Stato che era riservato agli alti funzionari che la corona inviava periodicamente dalla Spagna per garantire ed inviare alla metropoli la ricchezza a lei spettante estratta dallo sfruttamento delle colonie.

 

All’ottenere l’indipendenza da essa, essenzialmente a causa dell’indebolimento irreversibile di quella monarchia, i gruppi sociali -i criollos- che presero il potere lo utilizzarono precisamente per beneficiarsi totalmente della struttura coloniale, non per trasformarla. La dittatura “criolla” fu in concreto una continuazione della “piena situazione coloniale”, “liberata” però dal controllo e dal prelievo spagnoli.

 

Questo spiega in gran parte come la subordinazione delle oligarchie centroamericane a fronte delle imposizioni piratesche dell’efficiente aggressività del capitale finanziario statunitense, sia stata totale e “naturale”, coerentemente con il loro “DNA” di classi dirigenti “a metà”. Si era cioè, per dirlo con una metafora, in presenza di un cane molto più grosso al quale si era storicamente abituati a cedere la gran parte dell’osso da rodere.

 

Questa fusione di interessi e divisioni di ruoli tra le borghesie centroamericane e l’imperialismo statunitense, produsse di conseguenza una struttura politico-militare insuperabile per quelle forze rivoluzionarie che dal 1930 al 1950 dettero vita a tentativi di emancipazione nazionale e sociale per le proprie rispettive masse popolari. Tentativi sempre affogati nel sangue: iniziando con Farabundo Martí (1893-1932) nel Salvador con la repressione delle lotte popolari culminate in una ribellione (1930-1932), proseguendo con Augusto César Sandino (1895-1934) in Nicaragua con il tradimento degli accordi di sovranità nazionale raggiunti attraverso la guerriglia sandinista (1928-1934) e terminando con l’invasione statunitense che cancellerà la “rivoluzione di ottobre” guatemalteca (1944-1954) frutto di una rivolta di militari progressisti appoggiati da lavoratori e studenti. Il saldo di morte che si avrà in ciascuno di questi tre rispettivi paesi si calcolerà con il metro delle decine di migliaia.

 

In questo contesto sia di sconfitte delle forze popolari, che, soprattutto, di mancanza di riferimenti e di prospettive tattiche e strategiche di vittoria, si comprende dunque la straordinaria forza dimostrativa assunta dal Manuale “La Guerra di guerriglie” scritto dal Che nel 1960: sintesi essenzialmente militare -ma anche politica- estratta dalla vittoriosa esperienza della Rivoluzione Cubana riguardante la strategia, la tattica, la struttura organizzativa di una formazione guerrigliera e il ruolo del combattente rivoluzionario, per affrontare un nemico, uno Stato, fortemente più numeroso ed armato. In modo molto convincente e basato sui risultati cubani il Manuale “La Guerra di guerriglie” provava ai rivoluzionari nicaraguensi, guatemaltechi e salvadoregni che, esattamente nella situazione oggettiva dei paesi centroamericani “sì, si poteva”.

Dirà a questo proposito l’ultimo Comandante in Capo delle FAR in un colloquio dell’agosto 2002: “Eravamo sicuri che, come i cubani, in due, tre anni saremmo entrati a Città del Guatemala con i nostri compagni e le nostre compagne sui carri armati”.

Non è dunque assolutamente casuale che:

 

– nel luglio del 1961 i nicaraguensi fondino in Honduras il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN).

 

– nel dicembre del 1962 i guatemaltechi diano vita alle Forze Armate Ribelli (FAR).

 

1.1. Necessità di alcune precisazioni su FSLN, FMLN, URNG.

 

Le vicende politico-militari delle due formazioni rivoluzionarie marxiste e leniniste prima citate, FSLN e FAR, sono molto complesse e dense di contraddizioni interne che non tratteremo nel presente contesto. Chiaramente esse sono anche funzione della capacità di risposta del nemico -che sì, invece, analizzeremo- ed avranno come risultato scissioni e conseguenti nascite di nuove formazioni guerrigliere.

 

L’FSLN, guidato, sino alla sua morte, da Carlos Fonseca Amador (1936-1976), ritroverà l’unità formale tra TI, TP e GGP nel marzo del 1979, in vista della presa del potere che concretizzerà con l’entrata in Managua il 19 luglio 1979.

 

Le FAR, dopo la morte del loro Comandante politico-militare Luis Turcios Lima (1941-1966), si scinderanno in 2 distinte formazioni guerrigliere, EGP ed ORPA e ritroveranno solo nel febbraio del 1982 la capacità di riunirsi (anche su forti suggerimenti dei cubani). FAR, EGP ed ORPA, assieme al PGT (partito comunista), che non riuscirà mai a dar vita a nessuna propria formazione politico-militare, costituiranno così l’Unità Rivoluzionaria Nazionale Guatemalteca (URNG).

 

Vicende analoghe valgono ugualmente per i salvadoregni. Nel loro caso si avrà però un “ritardo” non indifferente nell’inizio della lotta armata. Occorrerà aspettare il 1970 per la nascita della prima formazione guerrigliera, le Forze Popolari di Liberazione (FPL). L’FPL sarà guidato da Cayetano Carpio, già Segretario generale del Partito Comunista, dimessosi esattamente per l’incapacità teorica e politica del suo partito a comprendere che la fase storica del paese era quella della guerra popolare prolungata; parte della causa di questo “ritardo” è dunque anche da ascriversi alla posizione del forte Partito Comunista de El Salvador (PCdS) che solo nel suo VII Congresso, aprile 1979, essendo Segretario Generale Schafick Jorge Handal[1], assumerà la lotta armata come forma principale della lotta di classe nel paese. È così che:

 

– nel dicembre del 1980 i 5 movimenti rivoluzionari salvadoregni si fonderanno nel Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (FMLN).

 

2. “Guerra di guerriglie”, una sintesi del Che per indicare la soluzione alla lotta anticapitalista ed antimperialista.

 

In questo testo il Che, in maniera tanto esplicita quanto implicita, sottolineerà costantemente come l’uso della Guerra di guerriglie per la conquista del potere politico debba sempre rispettare due leggi, pena la distruzione:

–  evitare la caduta in ogni tipo di dogmatismo ideologico, politico e militare;

– mantenere sin dalla fase iniziale della lotta guerrigliera il suo necessario carattere di lotta di massa la cui forma visibile, in questa accezione, è rappresentata da una avanguardia combattente.

 

2.1. Fondamenti: si può vincere il molto con il poco, il meglio armato con il peggio armato.

Nel Manuale -scritto nel 1960 dal Che, che sempre sottolinea come i suoi contenuti derivino dalla concreta esperienza della Rivoluzione cubana- vengono fissati tre punti che rappresentano l’essenza del perché la lotta guerrigliera, il metodo della lotta guerrigliera, sia lo strumento opportuno per la vittoria. Ovvero:

 

1. le forze popolari possono vincere un esercito;

 

2. il “foco” guerrigliero stesso può creare alcune delle condizioni necessarie allo sviluppo della rivoluzione;

 

3. la guerriglia in America Latina deve essere essenzialmente rurale.

 

I primi due punti, nel loro impatto iniziale, sono la dichiarazione che è ormai maturo il rigetto di ogni tipo di attesismo, meccanicamente abituato a giustificare la sua non volontà ad agire a causa sia dell’enorme inferiorità militare che della mancanza di condizioni politiche, strutturali e organizzative.

 

Il terzo punto dà invece, immediatamente, il senso di una affermazione di valore strategico: esso indica infatti nella classe contadina la forza d’urto della rivoluzione, il cui centro viene così spostato dalla città alla campagna. Non è infatti un caso che questo spostamento del baricentro rivoluzionario sia stato uno dei fattori che ha generato quelle contraddizioni interne al PCdS di cui prima abbiamo accennato, sciolte solo nel 1979 con la decisione di aderire alla lotta guerrigliera.

Conseguentemente all’indicazione di considerare la guerriglia rurale come asse della rivoluzione, il Che assegna al guerrigliero il ruolo di un rivoluzionario agrario che incarna i desideri della gran massa contadina ad avere campi da lavorare, mezzi di produzione ed animali necessari. Indipendentemente dalla forma ideologica che possa assumere la rivoluzione in America Latina, essa, egli dice, sarà inizialmente incernierata sulla aspirazione a possedere la terra. Il Che fa inoltre delle considerazioni sulle somiglianze dell’esperienza della Rivoluzione cubana, oltre alla evidente compatibilità latinoamericana con essa, con la Cina di Mao, con l’Indocina di Ho Chi Minh e con l’Algeria in lotta contro i colonialisti francesi che detengono la quasi totalità della terre lavorabili.

 

Ma i punti 1. e 2. sono anche, contemporaneamente, qualcosa di più del rigetto dell’attesismo. Sono la dichiarazione che l’America Latina è ormai matura per entrare nella fase della guerra popolare di lunga durata. È infatti evidente come, per affrontare un esercito professionale appoggiato da potenze straniere e dalla borghesia nazionale, occorra che:

 

– la guerra di guerriglie debba necessariamente svilupparsi in una guerra di massa, di tutto un popolo del quale la guerriglia è inizialmente l’avanguardia combattente;

 

– la guerra di guerriglie debba necessariamente superare la fase che da lei prende il nome, poiché, di per sé, essa non potrà ottenere la vittoria. Per battere un esercito regolare appoggiato dall’imperialismo è necessario costruire un Esercito Regolare nato, quest’ultimo, da un Esercito Guerrigliero.

 

La validità complessiva dei tre punti, la possibilità di applicarli sul terreno, è però subordinata alla presenza di una condizione legata al nemico: che le forze popolari siano pienamente convinte dell’impossibilità di praticare una lotta politica legale per il potere. In caso contrario -dove esista un governo che sia tale per qualche forma di consulta popolare, fraudolenta o no, e che si mantenga anche solo formalmente sotto un’apparenza di legalità costituzionale- la guerriglia non potrà prosperare.

E questa condizione era sicuramente presente nella Cuba del golpe di Fulgenzio Batista del 1952, nel Nicaragua dei Somoza, nel Guatemala del 1954, nel Salvador delle dittature militari che si ripeteranno -separate da intervalli di tempo più o meno lunghi- dal 1932 alla fine degli anni ’70.

 

2.2. Indicazioni più propriamente operative caratterizzanti la lotta guerrigliera.

Il Che si riferisce a questo suo contributo denotandolo come Manuale, diviso in 4 Capitoli, e fa quindi occupare al “come” su scala operativa, ad un livello descrittivo di risoluzione abbastanza alta,  la gran parte del testo. Del Manuale, però, questo contributo, toccherà solo alcune parti, riassunte e condensate, con l’obiettivo di trasmettere l’enorme complessità legata allo sviluppo della guerra popolare nell’accezione della lotta guerrigliera così come si è data a Cuba dal 2 dicembre 1956 al 1 gennaio 1959. Ovvero, si toccheranno:

 

–  (I) le definizioni generali e specifiche utili a comprendere la logica della lotta guerrigliera;

 

– (II) le caratteristiche imprescindibili che deve possedere la forza combattente rivoluzionaria;

 

– (III) il teatro fisico dove si svolge la guerra e conseguente strutturazione della guerriglia; la organizzazione della guerriglia e le sue modalità di operare.

 

(I) Definizioni generali.

 

Significato di “Leggi”: La guerra risponde ad una determinata serie di leggi scientifiche le quali se disattese portano all’annientamento. La guerra di guerriglie ne è ugualmente subordinata ma ha anche delle leggi accessorie che saranno “fuse” nelle Conclusioni presenti rispettivamente in (I), (II) e (III).

– Strategia: analizza e definisce gli obiettivi da raggiungere in un quadro militare totale e le forme globali che permettono di raggiungerli.

Per un guerrigliero strategia significa:

comprendere le risorse che possiede il nemico per annientarlo, cioè: uomini, mobilità, appoggio popolare di cui eventualmente gode, armamento, capacità di direzione.

In merito all’armamento è fondamentale valutare il tipo e l’effettività delle armi nemiche -armi della fanteria, artiglieria, carri, aerei- contro la guerriglia; anche per il fatto che il fornitore maggiore di armi della guerriglia è il nemico stesso.

 

Tattica: analizza e definisce il modo concreto di realizzare i grandi obiettivi strategici ed è contemporaneamente sia un complemento della strategia che una specie di regolamento della stessa.

 

[per Clausewitz (1780-1831) -che sarà il pensatore militare più “recuperato” dagli ufficiali di Stato Maggiore statunitensi per definire il contesto generale e operativo del successivo sviluppo della Guerra Controrivoluzionaria (1980-1990) che essi denomineranno Conflitto di Bassa Intensità- la strategia e la tattica rispondono al fatto (che): “la guerra si compone di un numero più o meno grande di atti distinti l’uno dall’altro (e cioè i combattimenti) che costituiscono distinte unità, come abbiamo dimostrato nel primo capitolo del primo libro. Da questa suddivisione derivano due attività completamente diverse, quella cioè di predisporre e dirigere, in se stessi, i combattimenti e quella di collegarli tra loro ai fini dello scopo della guerra. La prima è stata denominata tattica e la seconda strategia. Dunque la tattica insegna l’impiego delle forze nel combattimento: la strategia, l’impiego dei combattimenti per lo scopo della guerra.]

 

Conclusioni: principio fondamentale è quello di non iniziare un combattimento se non si è sicuri di vincerlo; per la prima fase della lotta guerrigliera l‘obiettivo che regge ogni azione è quello di non lasciarsi distruggere; una volta assicuratasi la sopravvivenza la guerriglia deve incessantemente colpire giorno e notte. Nella fase superiore della Guerra di guerriglie si praticherà “l’effetto alveare”, cioè la separazione di una Colonna guerrigliera dalla vecchia zona di operazioni ad una nuova per aprire un altro Fronte, avendo per obiettivo il passaggio alla guerra convenzionale attraverso la costituzione di un Esercito Regolare nato dall’Esercito Guerrigliero.

 

(II) Caratteristiche imprescindibili.

 

– Mobilità: caratteristica fondamentale che riguarda sia l’allontanamento dal luogo dell’azione militare compiuta dalla guerriglia, che lo sfilarsi da un accerchiamento nemico per realizzarne uno ai suoi danni (contro-accerchiamento o minuetto).

 

– Flessibilità: capacità di capire che alcuni obiettivi tattici possono mutare nel corso della guerra, così come possono cambiare specifiche modalità del combattimento. Ề un fattore caratterizzante la superiorità della guerriglia a fronte di un nemico educato nella rigidezza dei metodi classici del combattimento.

 

– Capacità di sorpresa: fattore fondamentale legato alla conoscenza del territorio ed all’appoggio popolare.

 

Conclusioni: viene individuato nella flessibilità uno dei fattori di superiorità a prescindere a favore della guerriglia.

 

(III.a.) – GUERRA IN TERRENI FAVOREVOLI:

è il teatro dove il nucleo iniziale della guerriglia decide di istallarsi, ovvero montagne con densa presenza di vegetazione.

 

– Uomini: il guerrigliero dovrà preferibilmente essere un abitante della zona, per i vantaggi di conoscenza del terreno e di appoggio sociale che avrà. L’importanza di possedere determinate qualità fisiche -instancabilità, sopportazione di sofferenze di qualunque tipo, adattabilità, flessibilità- e morali -implacabilità nel combattimento, rispetto del prigioniero, disponibilità a rischiare la vita quante volte sia necessaria ma attento a non esporsi inutilmente- è assoluta.

 

– Armamento: relativamente ad un gruppo, per esempio, di 25 uomini la situazione ideale può pensarsi in 10-15 fucili di lunga gittata, mentre il rimanente dovrebbe avere in dotazione armi automatiche o semiautomatiche (M-1 o Garand, FAL belga, Browning, eventuale mitragliatrice a tripode di contenimento).

Regime di Fuoco da rispettare: bassissimo. Il guerrigliero deve quasi ossessivamente risparmiare le sue pallottole, perché il problema dell’approvvigionamento di munizione è serissimo.

 

– Rifornimento: inizialmente la guerriglia dipenderà dai contadini e tutto deve essere pagato (“buoni speranza” in caso non ci sia denaro). Posteriormente sarà possibile realizzare linee di rifornimento esterne con basi intermedie (case di appoggio per nascondere di giorno le merci trasportate). In questa fase sarà anche possibile, internamente alla zona guerrigliera, fruire di prodotti agricoli e di allevamento di bestiame, frutti diretti delle braccia guerrigliere; anche occasione per provare e sviluppare nuove relazioni di produzione e di distribuzione. In quanto al Trasporto Carichi (anche se è molto difficile stabilire la capacità di carico soggettiva) ogni uomo può portare uno zaino da 25 kg. per molte ore e per molti giorni. Il mulo, quando sia possibile utilizzarlo, è un animale utilissimo per trasportare carichi molto pesanti.

 

– Organizzazione: indicativamente, non esiste uno schema unico, dice il Che, ma a “regime” una Colonna si comporrà di 100-150 uomini, non di più, agli ordini di un Comandante. La Colonna si divide in Plotoni di 30-40 uomini ciascuno agli ordini di un Capitano ed il Plotone si divide in Squadre di 8-12 uomini ciascuna agli ordini di un tenente.

La Squadraè l’unità tattica della guerriglia.

La Colonna sempre si muove con avanguardia e retroguardia, che assumono compiti di vigilanza e sicurezza, ma anche il Plotone deve avere una sua vigilanza.

A livello di Colonna si decide:

–  il POSIZIONAMENTO dell’accampamento e le misure di PROTEZIONE da rispettare al suo interno (per esempio contro il fuoco dei mortai: trincee con “tetto”);

– la DISCIPLINA che è, anche, la garanzia basica della sicurezza in questa situazione di “riposo”.

Sempre a livello di Colonna si stabilirà una dottrina per:

– gli SPOSTAMENTI (misure di sicurezza ed ordine di marcia),

– gli ATTACCHI a caserme, accampamenti e convogli (armi da utilizzare: “molotov”; cartuccia di una carabina calibro 16 come vettore di una “molotov”, una versione popolare della bomba controcarro “energa”);  bazooka;

– la USCITA DA UN ACCERCHIAMENTO.

 

– Combattimento: come evidenziato già a livello più generale, il combattimento deve realizzarsi in modo che sia garantita la vittoria perché essa, attraverso la sua costante reiterazione, è il primo anello tattico che condurrà al necessario passaggio dalla guerra di guerriglie alla guerra convenzionale.

All’interno del “ Combattimento”, nella prima fase della lotta guerrigliera, assume  funzione fondamentale, l’IMBOSCATA ALL’AVANGUARDIA nemica. In questa fase l’esercito avrà come compito la penetrazione nel territorio insorgente con l’obiettivo di distruggere il nucleo armato, che sceglierà un terreno dove sia impossibile la manovra sui fianchi. In questa condizione l’avanguardia deve necessariamente esporsi per preservare il grosso della formazione nemica e verrà così puntualmente distrutta, data la facilità di isolarla. Questa situazione si ripeterà immancabilmente, generando di conseguenza terrore nella truppa avversaria che si rifiuterà di andare all’avanguardia sapendo di essere condannata a morte. Nella fase posteriore della guerriglia l’imboscata potrà coinvolgere tutta la colonna nemica operando un accerchiamento.

PLOTONE SUICIDA:  a livello di Colonna, la riserva della guerriglia è rappresentata dal Plotone Suicida che verrà impiegato dove si decide un combattimento sia di attacco (annientamento) che di difesa (togliere il contatto). I suoi componenti devono essere assolutamente volontari.

 

Industria di guerra: arriva in una fase già avanzata della guerriglia. È importante anche per iniziare a sviluppare relazioni produttive ed economiche distinte da quelle del modello sociale che si sta combattendo (il Che farà qui l’esperienza che gli servirà quando sarà Responsabile del Dipartimento di Industrie dell’Istituto di Riforma Agraria (ottobre 1959) e poi come Ministro del Ministero di Industrie (febbraio 1961), per implementare il Sistema di Bilancio Preventivo di Finanziamento)

 

CONCLUSIONI:

 

– viene individuato un fattore di superiorità a prescindere a favore della guerriglia -che si lega con il precedente, la flessibilità, ed altri ancora (adattabilità, coscienza della lotta, eccetera)- per la differenza strutturale tra essa e l’esercito nemico. Perché “gli eserciti, strutturati ed equipaggiati per la guerra convenzionale, che sono le forze nelle quali si sostiene il potere delle classi sfruttatrici, quando devono affrontare la lotta irregolare che i contadini gli fanno nello scenario loro proprio, risultano assolutamente impotenti; perdono 10 uomini per ogni combattente rivoluzionario che cade, e la demoralizzazione li penetra rapidamente”[2];

 

il nucleo armato della lotta guerrigliera opera in questo teatro ed è obbligato ad acquisire  la comprensione sia di una serie di leggi derivate da quelle generali della guerra convenzionale che di quelle proprie della guerriglia. Ma deve inoltre subordinarsi a praticare da subito una stretta cospirazione o nel paese da dove partirà per liberare il proprio, o nel luogo del suo proprio paese dal quale si internerà poi in zone lontane e inaccessibili;

 

il numero di uomini sufficienti ad iniziare una lotta armata in qualunque paese americano oscilla tra i 30 ed i 50.

 

Notiamo, tra l’altro, come questi due ultimi punti siano stati “il bagaglio” del Che all’inizio della sua missione internazionalista in Bolivia (novembre-dicembre 1966).

Rispetto all’obiettivo di trasmettere un’idea della complessità della guerra popolare nell’accezione della lotta guerrigliera, quanto detto sino ad ora potrebbe essere sufficiente. Per mantenere un criterio di coerenza minima -rispetto alla scelta di selezionare, riassumere e condensare- terminiamo con l’elencazione dei teatri d’operazione.

 

(III.b.) – Guerra in Terreni Sfavorevoli:

in questo teatro è necessaria una straordinaria mobilita, flessibilità e capacità di sviluppare attacchi notturni. La Formazione Guerrigliera non può superare i 10-15 uomini la cui clandestinità deve essere assoluta ed il cui armamento individuale sarà essenzialmente composto da armi automatiche, ma anche di fucili a pallettoni e di bazooka. Inoltre disponibilità di esplosivo. La sicurezza è un fattore basico per la sopravvivenza, per cui non possono esistere nemici all’interno della zona di operazioni.

 

(III.c.) – Guerra Suburbana:

in questo teatro si richiede il massimo grado di disciplina per i 4-5 uomini della Formazione Guerrigliera che deve essere totalmente subordinata al Comando della Guerriglia Rurale. L’armamento è composto da armi corte ed esplosivi, oltre che da attrezzi meccanici (pale, picconi, accette, eccetera). La Guerriglia Suburbana ha un ruolo importante nel sabotaggio, che non ha nulla in comune con il terrorismo. L’attentato e il terrorismo in forma indiscriminata sono vietati.

 

Il Manuale continua sviluppando, dalla sua specifica ottica, un panorama completo delle problematiche che la Rivoluzione Cubana ha dovuto affrontare per trionfare: l’appoggio popolare, lo sciopero; l’organizzazione civile (strettamente legata alla conduzione della Guerra Suburbana); il ruolo della donna; la sanità; la propaganda; l’informazione; l’addestramento e l’indottrinamento. Aspetti che saranno sempre analizzati dal Che nella prospettiva dei cambiamenti politici, economici e culturali che, essendo già in “in fieri” all’interno del contropotere presente nelle zone guerrigliere, si sarebbero poi dovuti sviluppare pienamente a vittoria raggiunta.

 

3. Il Manuale come una componente dell’azione globale per la costruzione del socialismo.

 

Il Manuale, con il suo obiettivo politico -si deve rompere con l’attesismo e ribellarsi- e la sua indicazione metodologica -in America Latina si può fare grosso modo così- avrà realmente un “peso” importante per i movimenti rivoluzionari di quel continente.

Nonostante questa verità, il Manuale va visto come parte indivisibile di una azione globale del Che legata alle fasi della presa del potere, della transizione al socialismo, della costruzione del socialismo, le quali, cosa non secondaria, sono state da lui incardinate all’antidogmatismo e legate tra loro dalla pratica militante dell’internazionalismo proletario.

Nel periodo nel quale il Che scriveva il Manuale, terminato nella prima metà del 1960, stava contemporaneamente sviluppando nella pratica e nella teoria -prima come Responsabile del Dipartimento di Industrie (1959), poi del Ministero di Industrie (1961)- un percorso, pensato per l’intero blocco socialista ma poi applicato in parte solo a Cuba, per limitare e successivamente eliminare la mortale permanenza di categorie mercantili legate alla “legge del valore”[3] nelle relazioni di produzione.

Questo percorso teorico e pratico del Che, come si sa, si concretizzò nell’applicazione del suo Sistema di Bilancio Preventivo di Finanziamento (SPF) (di fatto in opposizione al Calcolo Economico usato nella Unione Sovietica), utilizzato in tutto il settore statale dell’industria cubana.

Quando, nel luglio del 1966, il Che, preparandosi a Cuba nella fattoria di San Andrés assieme al primo scaglione del suo gruppo per la missione in Bolivia, ricevette da Orlando Borrego Díaz un “omaggio” in sette volumi -El Che en la Revolución Cubana- “confezionato” dai suoi ex-collaboratori del Ministero delle Industrie dove si riassumeva anche il loro lavoro comune,[4] dirà incontrando nuovamente Borrego: “Sai a chi può essere utile tutto questo? Per esempio a Turcios Lima[5] … soprattutto quando si analizza, lì nei libri, il Sistema di Bilancio Preventivo. Se tutto andrà bene, quando vinceremo[6], anche noi lo applicheremo e già non sarà solo Cuba a sviluppare questo esperimento”. Questa visione globale dell’internazionalismo proletario non lasciava però posto a fraintendimenti, perché il Che così la esplicitava: “… che si sviluppi un vero internazionalismo proletario; con eserciti proletari internazionali, dove la bandiera sotto la quale si lotta sia la sacra causa dell’emancipazione umana, di tal modo che morire sotto le insegne del Viet Nam, del Venezuela, del Guatemala, del Laos, della Guinea, della Colombia, della Bolivia, del Brasile, per citare solo gli scenari attuali della lotta armata, sia ugualmente glorioso e desiderabile per un americano, un asiatico, un africano e, perché no, per un europeo”.[7]

 

4. La risposta imperialista attraverso la definizione e l’applicazione della “Guerra controrivoluzionaria”.

 

4.1. Aspetti generali della risposta militare e politica.

Dal 1959, anno della vittoria della Rivoluzione Cubana, sino alla metà degli anni ’70, l’imperialismo implementò, attraverso le sue specifiche strutture (Stati Maggiori e Servizi di sicurezza), uno studio sistematico per costruire una risposta compiuta e, nelle sue intenzioni, risolutiva alla guerra popolare prolungata. Gli Stati Uniti sono stati quelli che maggiormente vi investirono e la prima configurazione da essi prodotta venne formalmente inserita, e nel prosieguo dello scontro ripetutamente aggiornata, nella loro cosiddetta Dottrina di Sicurezza Nazionale.

Nel 1959 l’obiettivo pubblicamente conclamato si condensò in “Non permetteremo un’altra Cuba”

strutturando su due piani le misure per raggiungerlo.

 

Il primo piano consistette nell’intervenire economicamente e politicamente in tutta l’America Latina – soldi e riforme nel settore agrario, almeno nelle dichiarazioni; cose, comunque, che mai prima di allora erano state neppure accennate dalle amministrazioni statunitensi- nella speranza sia di distogliere che di contenere le richieste popolari che, totalmente disattese, finivano per prendere a riferimento i movimenti rivoluzionari in continua crescita. È esattamente come faccia pubblica atta a convincere le masse popolari latinoamericane che gli Stati Uniti “volevano migliorare la vita di tutti gli abitanti del continente”, che nel marzo del 1961 nasce l’Alleanza per il Progresso (ALPRO), cui si affianca la Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID). La realtà è che ALPRO e USAID entravano pienamente nella pianificazione della guerra controrivoluzionaria che vede la sua applicazione attraverso azioni sistematiche, continue, ampie, unificate nelle quali è inclusa a pieno titolo un “intervento civico” sotto responsabilità di tecnici non subordinati direttamente alla struttura militare. All’intervento civico, coerentemente sincronizzato con l’azione militare, è affidata la presenza sul terreno per sciogliere i “nodi” dell’istruzione, della salute; per inventare micro-progetti produttivi da finanziare; per affermare una “cultura di pace” attraverso una (mai realizzata) trasformazione del conflitto militare in “differenze” risolubili; per recuperare il “vero significato” dei diritti etnici e di genere.

È opportuno notare come ALPRO (1961-1965) e USAID (tutt’ora pienamente attiva) saranno anche i prototipi di quelle future proliferanti strutture -veri “cavalli di Troia” nel campo popolare- che qui in Italia prenderanno il nome di “Organismi Non Governativi” (ONG).

 

Il secondo piano fu quello militare, chiaramente ritenuto decisivo nella valutazione imperialista, che consistette nell’impostazione del recupero della iniziativa strategica e di quella sul terreno. Le premesse iniziali da cui gli Stati Uniti partivano erano due:

 

– la constatazione della “facilità” e della “naturalezza” con la quale si stava radicando la guerra popolare nei distinti teatri;

 

– l’inadeguatezza degli eserciti repressori nazionali da loro equipaggiati ed addestrati a confrontarsi, vedi appunto le sconfitte e il dissolvimento dell’esercito batistiano a Cuba, con il metodo della Guerra di guerriglie.

 

Gli Stati Uniti facevano dunque propria l’affermazione del Che (da lui ripresa dalla II Dichiarazione dell’Avana del febbraio 1962) che qui ripetiamo: “Gli eserciti, strutturati ed equipaggiati per la guerra convenzionale, che sono le forze sulle quali si sostiene il potere delle classi sfruttatrici, quando devono affrontare la lotta irregolare dei contadini nel quadro rurale, risultano assolutamente impotenti; perdono 10 uomini per ogni combattente rivoluzionario che cade, e la demoralizzazione penetra in loro rapidamente …”.

 

Ma non si limitarono ad assumere solamente questa affermazione. Dice Harry Villegas Tamayo, “Pombo”[8]: “Il Manuale del Che, “Guerra di guerriglie”, venne considerato dai nordamericani come la migliore elaborazione nel campo della guerra irregolare. Lo presero come testo di studio, per poi elaborarne uno loro proprio[9], sia per la profondità dei concetti che per l’aspetto didattico. I berretti verdi ci studiarono sopra per poi, ovviamente, applicarlo all’incontrario”.

 

Dall’analisi delle due premesse iniziali, per gli ufficiali superiori degli Stati Maggiori interessati e della CIA, derivò grosso modo, la necessità:

 

– di rivedere, attraverso un’analisi critica, gli accadimenti occorsi nei passati teatri di scontro dove l’imperialismo aveva subito sconfitte ma anche raccolto vittorie, come: in Grecia, 1946-1949; in Cipro, 1955; nella Zona del Canale di Suez, 1956; nell’Algeria,1954-1962; nel Kenia, 1952-1961; nella Malesia, 1956-1960; nelle Filippine, 1952-1953; nell’Indocina, 1943-1954;

 

– di definire un “crivello” selettivo per la scelta dell’analisi della “forma visibile” delle componenti fondanti il quadro della guerra popolare.

 

4.1.1. Soluzione militare: riprodurre il “come” ignorando il “perché”.

Il “crivello” operò la seguente polarizzazione, che indichiamo con POSITIVO per le componenti da assumere e con NEGATIVO per le componenti da rigettare:

 

NEGATIVO:

– non impantanarsi nell’analisi degli obiettivi politici, e quindi ignorarli, per il raggiungimento dei quali fu implementata ed applicata la “forma visibile” della guerra popolare, ovvero avere chiaro l’inutilità di volerla comprendere come risposta alla povertà, allo sfruttamento, all’imperialismo, alla cattiva amministrazione del governo locale e cose simili, poiché essa deriva esclusivamente dalla volontà di una feroce minoranza comunista di prendere il potere;

 

– non impantanarsi nel voler riportare la guerra popolare all’interno di soluzioni militari già manifestatesi in passato in base al fatto che suoi elementi isolati sono stati enunciati ed applicati da distinti comandanti militari in distinte epoche; la guerra popolare è un fenomeno totalmente nuovo che, pur utilizzato dal nemico come un tutto, va separato nelle sue parti politiche e militari le quali ultime vanno studiate dalla fonte.

 

POSITIVO:

enucleare, dall’analisi attenta del Manuale del Che, degli scritti di Mao Tse-tung e di Vo Nguyen Giap, la “forma visibile” (nel senso di esperienza sensibile) -una specie di neopositivismo militare- attraverso la quale i rivoluzionari implementano e applicano la guerra popolare. Questa “forma visibile” fu riproposta dagli statunitensi attraverso l’elaborazione di un loro schema, sotto schematicamente ripreso, che si sostanziava in “4 Fasi” e in “5 Principi”.

 

Le “4 Fasi”:

– organizzazioni di cellule e di reti:

– terrore rivoluzionario contro collaboratori civili e funzionari militari del governo;

– guerra di guerriglie urbana e rurale;

– guerra di movimento tendente verso il conflitto convenzionale.

 

I “5 Principi”:

– preservare le forze armate rivoluzionarie che vanno utilizzate solo quando vi è la sicurezza di annientare il nemico;

– costruire basi strategiche in distinti punti del paese come poli produttivi, come momenti di reclutamento ed educazione politica;

– mobilizzare le masse;

– sviluppare contatti internazionali;

– unificare tutte le azioni attraverso una opportuna centralizzazione.

 

ROVESCIAMENTO DELLA PRASSI:

– dall’analisi critica delle esperienze dell’imperialismo britannico e francese nel campo della lotta rivoluzionaria;

– dallo studio comparato del Manuale del Che, degli scritti di Mao Tse-tung e di Vo Nguyen Giap e dal bilancio derivante dalla loro applicazione sul terreno;

– dalla enucleazione della “forma visibile” della guerriglia di operare a livello organizzativo, le “4 Fasi”, e a livello strategico, i “5 Principi”:

 

gli statunitensi costruiranno due assiomi empirici, che a seguito mostriamo, sui quali baseranno il nucleo della loro risposta militare alla guerra popolare prolungata:

 

1. Un qualunque governo amico ha, potenzialmente, tutti gli strumenti e le risorse materiali per distruggere una iniziale formazione guerrigliera;

 

2. La potenziale capacità di vittoria del governo amico si concretizza in vittoria fattuale quando esso sarà capace di applicare inversamente le “4 Fasi” e i “5 Principi”, ovvero, li assumerà in senso contro-rivoluzionario costruendo e rivolgendo quasi letteralmente contro il nemico le sue stesse indicazioni ora trasformate nelle “Contro-4 Fasi” e nei “Contro-5 Principi”. Questo sarà possibile nella misura in cui le nostre risorse materiali saranno adeguate alle concrete necessità della situazione complessiva.

 

Per mettere in pratica quanto sopra veniva fondata nel luglio del 1963 la “Scuola delle Forze Armate degli Stati Uniti delle Americhe” -meglio conosciuta come “Scuola delle Americhe- che graduerà, sino al 1984, 60.000 tra militari e poliziotti di 23 paesi dell’America Latina.

 

È il caso di ricordare che tutti i militari e i poliziotti riconosciuti poi colpevoli di crimini contro i loro popoli -quelli del Cile, dell’Argentina, del Brasile, della Bolivia, della Colombia, del Salvador, dell’Honduras, del Guatemala (nel caso del Guatemala si parla di genocidio), nel periodo qui preso in considerazione, 1966-1996, sono passati dalla “Scuola delle Americhe”.

 

A seguito viene riportata la sua struttura schematizzata.

 

SCUOLA delle AMERICHE (1963-1984)

I) a Panama (1976-1984):

Fort Gullick: SIM; Operazioni SIM Rurali e Urbane; Dottrine

Dottrine Convenzionali:   Politiche

Fort Clayton: Ingegneria Militare; Topografia; Cartografia

 

Dottrina di Guerra Aerea: Fort Albrook

 

Operazioni Contro Insurrezionali in ambiente di Selva Tropicale: Fort Sherman

 

II) Stati Uniti (sino al 1976):

 

Addestramento “Commandos” e “Rangers” – Georgia: Fort Bening  

                                                         Dottrine Strategiche

Corsi per Ufficiali Superiori in                                               – Washington: Fort L.J. Mc Nair

                                                         Operazioni Contro Insurrezionali

 

Operazioni di Guerra Non Convenzionale – Nord Carolina: Fort Bragg

 

III) Honduras (1983-1985)

 

“Commandos” e Coordinamento Regionale Centro Americano – CREM, Trujillo

 

Gli Stati Uniti al termine del 1965 avevano, ancorché  in forma iniziale, approntato una risposta complessiva alla Guerra popolare; ed in effetti i risultati, per loro, cominciarono a vedersi poco dopo. Da allora il rapporto di perdite di 1:10 a favore dei combattenti rivoluzionari cui si riferiva il Che (“fattori di superiorità a prescindere” della guerriglia, punto 2.2.) non risultava più valido. Dice Harry Villegas, “Pombo” della sua esperienza in Bolivia: “loro (i berretti verdi) si inserivano come istruttori a livelli distinti (plotone, compagnia, battaglione) lasciando i compiti concreti sul terreno ai “naturali” ai “nativi”. Fu con questo metodo che formarono le compagnie che combattevano conto di noi e noi ci siamo resi subito conto che il rapporto qualitativo con il nemico stava cambiando. Iniziarono a combattere con maggior preparazione e abbiamo capito automaticamente che avevamo davanti un nemico più forte di prima con il quale era ora necessario essere più attenti. Ma non fummo attenti quanto avremmo dovuto perché la situazione non lo permetteva; non perché non sapessimo che stavamo violando i principi stessi della lotta guerrigliera.”[10]

 

4.2. Il teatro centroamericano e l’applicazione del “Conflitto di Bassa Intensità”.

Nel teatro centroamericano, il perfezionamento dell’applicazione della “Guerra contro-rivoluzionaria” sia a livello di preparazione militare (“Scuola delle Americhe”), che politico (modello di “democrazia elettorale” costruito per mascherare il terrorismo di Stato operante in Salvador, Honduras e Guatemala), aveva permesso agli Stati Uniti, all’inizio degli anni ’80, il rispettivo:

– superamento sostanziale dei limiti degli eserciti nazionali nell’affrontare un tipo di guerriglia come quelli indicati dal Che (cioè dei “fattori di superiorità a prescindere” della guerriglia esplicitati nel punto 2.2.) come dimostra la dichiarazione di “Pombo” (punto 4.1.1.);

superamento formale -accettato però come superamento reale a livello internazionale- di governi criminali dittatoriale e fantoccio tipo Batista, aggirando così la condizione legata al nemico posta dal Che per l’applicazione dei tre punti.

 

Questo implicava direttamente come, da un punto di vista “meccanico”, il quadro complessivo, nel quale  il Manuale costruiva e pianificava l’azione rivoluzionaria, non esistesse già più.

 

La negazione a subordinarsi ad una visione “meccanicistica” da parte dei movimenti guerriglieri, era stata il fattore che aveva permesso la vittoria dei sandinisti in Nicaragua (1979), facendo di conseguenza fallire l’obiettivo degli Stati Uniti di sostituire la dittatura di Somoza con un “governo elettorale” a loro totalmente subordinato. La presa del potere dell’FSLN rafforzava anche, e notevolmente, le forze rivoluzionarie dell’istmo -come in Guatemala, in parte in Honduras, ma soprattutto in Salvador- cosicché i nordamericani decisero di intervenire in tutto il Centro America, perché “perderlo” avrebbe significato per loro un cambiamento disastroso, e forse irreversibile, nella correlazione di forza mondiale.

 

Gli Stati Uniti agirono (1979) su due piani: uno interno e l’altro esterno.

Sul piano interno costituirono la struttura di comando di una “Forza Congiunta d’Obiettivo della Forza di Spiegamento rapido” (FSR) la cui pianificazione riguardava l’area d’intervento dei Carabi (e del golfo Persico) per l’inserzione rapida (scala di tempo: ore) di truppe nordamericane in quella regione. Le unità assegnate all’FSR erano le due Divisioni d’élite 82 e 101 aereo trasportate.Nel 1981 la FSR contava con 200.000 unità il cui impiego prevista riguardava la sola regione centroamericana (!).

Sul piano esterno -per noi quello centroamericano- l’asse della loro strategia fu quello di garantire addestramento e armamento ai “nativi” ai quali era affidato il compito di saturare il teatro di guerra e sconfiggere il nemico avendo come riferimento le “4 Contro-Fasi”. Esattamente con questo riferimento si addestreranno nella “Scuola delle Americhe” le truppe scelte “native”. In Honduras attueranno i “Cobra” e la “Contra”, la guerriglia contro rivoluzionaria nicaraguense  forte di 12.000 uomini; in Guatemala i “Kaibiles” e le “milizie popolari”, le PAC. Ma lo sforzo maggiore, in quel momento, sarà esercitato sul Salvador, dove l’FMLN aveva conquistato -con l’offensiva del gennaio 1981- l’iniziativa militare. La formazione dei battaglioni Atlácatl, Atonal e Ramón Belloso, quest’ultimo elitrasportato,  rispondeva ad un tentativo di recupero.

 

Ma la forza della guerra popolare e la forza dei movimenti rivoluzionari erano comunque così elevate, che il costo complessivo che gli Stati Uniti avrebbero dovuto pagare per una soluzione militare, era improponibile. Nonostante la potenza militare della FSR la vittoria sul campo non era né garantita né tanto meno definitiva.

 

Così, mentre i “nativi” erano occupati ad applicare le “4 Contro-Fasi”, gli Stati Uniti ripiegavano sull’idea di implementare i “5 Contro-Principi”. Tra questi risalta l’attenzione da loro data “allo sviluppo dei contatti internazionali”: Argentina, Cile, Israele, Corea del Sud, Taiwan, saranno infatti i criminali istruttori dei “nativi” nella applicazione delle “4 Contro-Fasi”: tortura, sequestri, gestione dei “villaggi modello”, controllo della popolazione urbana.

Per capire l’assunzione da parte statunitense di questa particolare Guerra Controrivoluzionaria in Centro America, può essere preso a riferimento il concetto di “vittoria” che appare nel testo militare del Colonnello Harry G. Summers:[11] “Vittoria è il raggiungimento degli obiettivi politici che dettero inizi alla guerra”.

 

Dalla sinergia tra le esperienze accumulate nella guerra controrivoluzionaria ed il pericolo di perdita dell’egemonia a causa delle vittorie della guerra popolare,  l’imperialismo statunitense sviluppava così il concetto strategico di “Conflitto di Bassa Intensità” (CBI).

Il CBI si concretizzava in una nuova forma di guerra controrivoluzionaria prolungata, pensata per essere applicata  alla specificità della situazione dei paesi centroamericani, che si appoggiava su tre assi basici:

 

– della contro insurrezione: intervenire laddove esista una minaccia evidente all’ordine stabilito (El Salvador, Guatemala), o anche una minaccia potenziale incipiente (Honduras) o ipoteticamente potenziale (Costa Rica);

 

– del rovesciamento dei processi sociali e politici: intervenire laddove si siano prodotti cambi strutturali che hanno invertito l’anteriore “status quo” (Nicaragua);

 

– “dell’antiterrorismo”: intervenire laddove i movimenti popolari e i governi nemici continuino ad erigersi a protettori “del terrorismo” (Cuba ed aree che eventualmente escano dalla “pacificazione”).

 

Dal 1981 al 1990, i movimenti rivoluzionari centroamericani affronteranno questa terribile concretizzazione imperialista: il Conflitto di Bassa Intensità.

Militarmente la loro tenuta sarà eroica e diverrà materia di studio per come contenere un nemico molto più forte; ma il progetto politico associato alla lotta guerrigliera sarà congelato.

Il prezzo di morte pagato dalle masse popolari a causa di questa particolare strategia imperialista di “bassa intensità”, sarà drammatico. L’Honduras pagherà con circa 10.00 morti; il Nicaragua (1981-1990) pagherà con 50.000; El Salvador (1970-1992) con 80.000; il Guatemala (1960-1996) con 250.000: un vero e proprio genocidio.

 

5. La contro-risposta delle guerriglie centroamericane avendo il Che come riferimento.

La contro risposta fatta propria dalla guerra popolare in atto in Centro America (1980-1990) è stata contemporaneamente tanto politica quanto militare. Questa contro risposta, nelle sue componenti qualitative e quantitative, rivela in sé l’impronta, l’eredità del Che dal quale essa ha assunto sia quelle categorie che risultano“sine qua non” per un percorso di lotta conseguentemente comunista, che soluzioni politiche e militari creative adeguate a fermare il nemico:

 

– l’antidogmatismo:

con il mutamento politico e militare operato dall’imperialismo statunitense -eliminazione della condizione vincolante per poter sviluppare la guerriglia e cancellazione dei suoi fattori  di superiorità sul campo- di guerra popolare non si sarebbe neppure dovuto parlare in Centro America. Ma così non fu. Mantenendo gli obiettivi strategici, la costruzione del socialismo, venne infatti realizzata una analisi antidogmatica del modello -un tempo vincente, ma che il nemico era riuscito a scardinare- che produrrà soluzioni complessive (sotto tratteggiate) nelle quali il riferimento rimaneva:

– il Che delle prime righe del suo Manuale: ”La vittoria armata del popolo cubano … è un fattore modificatore di vecchi dogmi dell’America Latina … che dimostra la capacità del popolo di liberarsi da un governo che lo attanaglia attraverso la lotta guerrigliera”;

– il Che della critica aperta al “Manuale di Economia Politica” dell’URSS, che fornisce soluzioni concrete per sostituirlo, applicandole a Cuba ed in prospettiva ai futuri territori liberati dell’America Latina: Guatemala e Bolivia.

[non è forse male a proposito di antidogmatismo, anche se distante nel tempo e nello spazio dal Che, riprendere le riflessioni di Gramsci -il 24 novembre 1917 sull’“Avanti!”- che individuano nella rivoluzione guidata da Lenin la sconfitta storica dei marxisti “legali” russi che usavano Il Capitale di Marx a dimostrazione “della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che i proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione”]

 

– l’internazionalismo proletario:

senza una pratica rigorosa di appoggio reciproco politico e militare, le formazioni guerrigliere centroamericane (di cui una al potere in Nicaragua) non avrebbero potuti resistere all’urto dell’imperialismo statunitense. Armi, logistica, retrovie (Nicaragua in primis e poi Cuba) per ospedali, per corsi politico-militari, per momenti di valutazione e bilancio strategico: in due parole, internazionalismo proletario per la cui sintesi abbiamo, precedentemente, dato la parola al Che. Questo fu l’aspetto principale delle concrete relazioni delle formazioni guerrigliere durante lo sviluppo della guerra popolare in Centro America. Il riferimento al Che dell’internazionalismo proletario, che egli praticò con conseguenza e creatività, è, anche qui, totale.

 

– il superamento rivoluzionario del modello politico utilizzato nel Conflitto di Bassa Intensità:

crediamo sia dirimente, per capire il percorso di questo superamento, riportare (virgolettato) il nucleo della sintesi elaborata, anche auto-criticamente,[12] dall’intero PCdS (1988) ed esposta da Schafick Jorge Handal, la quale è paradigmatica delle altre tenutesi, sull’argomento, in tutte le formazioni rivoluzionarie centro americane (cambiano date e sigle).

 

“Il Che nel suo Manuale di “Guerra di guerriglie” diceva che a fronte di un governo costituzionale, o per lo meno che lo fingesse, non era possibile iniziare la lotta armata. Questa affermazione del Che rifletteva che, allora, le cause della rivoluzione erano vincolate a un determinato livello di violazione delle libertà democratico-borghesi, alla esistenza di regimi tirannici, a una problematico livello di sopravvivenza; cioè, a problemi politici e sociali molto grossi ed impattanti. Per questo la strategia del “Conflitto di Bassa Intensità” (CBI) elabora uno schema nel quale a livello politico esiste un governo di centro che simula porsi tra l’estrema sinistra e l’estrema destra. Un governo che mette in marcia un processo di “democratizzazione”, un governo che fa riforme socio-economiche e invita a incorporarsi a questo processo e smontare così le necessità della lotta rivoluzionaria.

Ma il risultato è molto, molto negativo per l’imperialismo e la sua strategia di CBI. Se continuasse ad essere vigente come un dogma l’insieme delle motivazioni raccolte dall’analisi del Che, che deve necessariamente esserci una dittatura cavernicola, senza nessuna vernice costituzional-democratica perché il popolo si ribelli, non sarebbe possibile la Guerra Popolare Rivoluzionaria che dal 1981 è scoppiata nel Salvador. La esperienza che noi stiamo vivendo nel Salvador dice totalmente un’altra cosa. Da noi, come strumenti del CBI, vi è stato un governo centrista; vi sono state riforme -riforme agrarie, nazionalizzazione della Banca, nazionalizzazione di una buona parte del commercio estero- ed a queste riforme si è permesso di continuare camminare. Quando facevano questo, è quando esattamente scoppiò la guerra rivoluzionaria. Ma assieme a queste misure politico-economiche, il nemico approfondiva fortemente i suoi sforzi repressivi per distruggere la rivoluzione, per annientarla fisicamente.

In questo contesto abbiamo però avuto la capacità di sviluppare una politica che ha elevato di molto le motivazioni dei popoli per assumere la lotta rivoluzionaria. Queste motivazioni sono più profonde, più radicate di prima; i popoli sono capaci di percepirle anche con la bende della “costituzionalità”, della pseudo-democratizzazione, delle riforme che i governi del capitale e dell’imperialismo vorrebbero mettergli sugli occhi. Questo sottolinea che la rivoluzione, nonostante l’opinione di molti teorici, incluso del nostro campo, continua ad essere una legge dello sviluppo sociale, la quale non può essere né addomesticata né evitata.        

 

– il superamento rivoluzionario del modello militare utilizzato nel Conflitto di Bassa Intensità:

come già detto, lo sforzo antidogmatico della guerriglia centroamericana non riguardò, naturalmente, gli obiettivi strategici.

La lotta armata, tra tutte le forme di lotta, restava quella assolutamente principale e la costruzione della società socialista[13] la causa per la quale si combatteva la guerra popolare.

La contro-risposta militare al CBI -possibile anche per la correlazione di forza tra campo rivoluzionario e imperialismo statunitense impensabile al tempo della rivoluzione cubana- si sostanziava in:

 

a) un maggiore e migliore armamento che la guerriglia usava razionalmente e creativamente. Per questo, molto esemplificatamene, indichiamo alcune specificità dei teatri del:

– Salvador[14]: uso massiccio di esplosivo (mine antipersonali, anticarro, di contenimento); soluzioni originali per colpire obiettivi militari (caserme, elicotteri in volo); fronti verticali (Colle Guazapa);

– Guatemala[15]: uso massiccio di mine antipersonali, di imboscate contro l’esercito e contro la forza aerea;

 

b) una migliore preparazione tecnica del guerrigliero;

 

c) una decisa impostazione diretta al salto qualitativo da forza guerrigliera ad esercito regolare;

 

d) un aumento dell’importanza del ruolo della guerriglia urbana e conseguentemente del sabotaggio e dell’attentato.

 

Per confermare quanto ora detto è sufficiente l’esame dei temi, il loro sviluppo e la profondità di trattamento dei medesimi, che risultavano inseriti nei nuovi Testi Militari Rivoluzionari (1980-1996). Accenniamo ad alcuni di essi, inserendo una valutazione dell’Esercito Popolare Sandinista sulle caratteristiche che lo scontro in atto impone per lo spostamento dei combattenti (argomento che il Che tratta nel 3° punto del II° Capitolo).

 

Manuale Internazionalista (1985):

trattazione molto dettagliata dei temi di tattica delle truppe guerrigliere; si pone attenzione alla topografia ed all’orientamento: per esempio all’uso delle bussole millesimali; si pone molta attenzione alla parte di ingegneria (genio militare): sabotaggi.

 

FAR del Guatemala:

Manuale per l’Organizzazione dei piani di Combattimento (1991): dettaglia il significato di Informazione corretta e verificata; di Esplorazione; di Osservazione; di Pianificazione (grande attenzione alla realizzazione di distinti tipi di imboscate); di Realizzazione del Combattimento (scontro, accerchiamento, annientamento).

Progetto di regolamento Militare (1992): indica la necessità di costruire un Esercito Popolare e di stabilire conseguentemente, attraverso Articoli (ed associate Sanzioni applicate a coloro che li violino), ruoli e compiti delle distinte strutture militari che lo compongono. Parte con l’indicare i differenti livelli di Comando e le strutture ad esse subordinate in un Fronte di Guerra (Battaglione; Colonna; Plotone; Squadra (che conferma come unità tattica principale della guerriglia), per terminare con il fissare concretamente le pene delle mancanze commesse (è compresa la pena di morte, articolo 173.u.).

 

– Esercito Popolare Sandinista del Nicaragua[16]:

Manuale di marcia delle Unità e Piccole Unità (1986): inquadra il contesto dello scontro considerando possibile l’aggressione imperialista che sarà caratterizzata da:

– un amplio impiego della aviazione, fatto che obbligherà l’EPS a prescindere, in moltissimi casi, dall’uso di mezzi di trasporto su gomma o cingolati;

– la occupazione nemica di parte o gran parte del territorio nazionale.

Entrambe queste condizioni imposte dalla superiorità tecnica del nemico, richiederanno la costante realizzazione di marce tattiche (d’incontro con il nemico) ed amministrative (di solo spostamento).

Lo spostamento organizzato di truppe è un compito apparentemente secondario ma invece fondamentale e complesso (come il Manuale dimostra). È interessante vedere come la pressione imperialista faccia “regredire” la logistica di un esercito popolare alla precedente fase guerrigliera.

 

6. Conclusione.

 

Potrebbe essere interessante realizzarla collettivamente, all’interno della stessa iniziativa, con l’obiettivo di riportare alle condizioni presenti le necessità di recuperare e applicare qui ed ora: 1) la visione globale, come comunisti, dello scontro su tutti i livelli; 2) la lotta permanente contro il dogmatismo; 3) la comprensione di come le misure adottate dai governi borghesi (dalle elezioni, alle riforme, alle nazionalizzazioni -vedi quello che è successo dove l’imperialismo ha fatto tutte queste concessioni per vincere-  non significhino assolutamente nulla; 4)l’applicazione dell’internazionalismo proletario.

 


[1] Schafick Jorge Handal (1930-2006) era di origine palestinese.

[2] “Táctica y estrategia de la Revolución Latinoamericana”, ottobre novembre 1962. Obras, Volume II, p. 502. Il Che riprende questo “assioma” direttamente dalla “Segunda Declaración de La Habana” 04-02-1962

[3] Il problema era già stato approcciato da Stalin nel 1952 in “Problemi Economici del Socialismo nell’Urss” [(p.120) – Cooperativa EDP, Milano, 1973].

[4] “Che el camino del fuego” (p. 377) – O. Borrego Díaz – Imagen Contemporánea, 2001.

[5] Luis Turcios Lima (1941 – 1966), era, come già detto, il Comandante politico-militare delle Forze Armate Ribelli del Guatemala (FAR).

 

[6] in Bolivia

[7] “Mensaje a los pueblos del mundo a través de la Tricontinental”, en Supplemento especial, 16 aprile 1967. Obras, Volume II. p.596.

[8] Harry Villegas Tamayo, nome di combattimento “Pombo”, generale di Brigata delle Forze Armate Rivoluzionari di Cuba ha accompagnato il Che nella Sierra Maestra, in Congo e in Bolivia. È uno dei tre superstiti cubani di quella guerriglia. Da “La enseñanza del Che”, nel libro di Néstor Kohan “El sujeto y el poder” p. 331

 

[9] Questo testo, a sua volta, circolava all’interno delle guerriglie centroamericane.

[10] “La enseñanza del Che”, nel libro di Néstor Kohan “El sujeto y el poder” p. 341.

[11] “Sulla Strategia.Una Analisi Critica della Guerra del Vietnam”.

[12] il PCdS non si nascose dietro il fatto che, alla caduta del Che, la sua dirigenza non ne capiva correttamente, a causa di concezione dogmatiche e di ritardo nella elaborazione rivoluzionaria, né il contributo teorico, né quello dell’azione. Questo, in realtà, occorse anche in Italia. Nell’agosto del 1968, dopo l’uscita del “Diario del Che in Bolivia, “nuova unità”, per la penna di un suo dirigente, ne realizzerà un commento con citazioni (inesatte) il cui titolo è esplicativo: “Nelle parole di Che Guevara il fallimento del “guevarismo””. In maniera equivalente, ma su un argomento apparentemente diverso, nel giugno del 1967, “Rivoluzione Proletaria” aveva attaccato il “castrismo-guevarismo”.

 

[13] il Manuale delle FAR guatemalteche “Organizzazione dei Piani di Combattimento” del 1991 terminava con l’appello: “A vincere o morire per il Guatemala, la Rivoluzione e il Socialismo”

[14] il teatro era essenzialmente adatto ad una guerriglia suburbana: paese piccolo -circa 21.000 kmq.- poco boscoso e con 4-5 milioni di abitanti.

[15] il teatro era maggiormente adatto ad una guerriglia rurale: estensione di circa 110.000 kmq. con presenza sia di montagne che di selva tropicale e con 8-9 milioni di abitanti.

[16] estensione di circa 130.000 kmq. con presenza sia di montagne che di selva tropicale.

AGGIORNAMENTO DELLA SITUAZIONE IN YARMOUK

http://www.youtube.com/watch?v=fMe6j1WMvzU&feature=youtu.be

rendendo omaggio a ghassan kanafani

 

in delegazione a beirut sulla tomba di ghassan kanafani

in delegazione a beirut sulla tomba di ghassan kanafani

DICHIARAZIONE IN SOLIDARIETA’ AI COMPAGNI PALESTINESI NEL CAMPO PROFUGHI DI YARMOUK

DICHIARAZIONE DI YARMOUK”

 

La poca numerosità della nostra presenza -estremamente ridotta per la conosciuta mancanza di risorse che la crisi capitalista ha rovesciato sulle classi subalterne- è positivamente contrastata dalla forte e cosciente volontà di solidarietà e di appoggio nei vostri confronti, di cui siamo fisicamente i portatori, da parte di tante realtà italiane e sudamericane firmatarie della presente “Dichiarazione di Yarmouk”, il Campo Profughi Palestinese che ci accolse con fraternità nel settembre del 2010.

Vogliamo darvi conto di tre forti cause che ci hanno portato qui, le quali, però, esprimono o sottendono tutte una comune volontà e necessità di iniziare un percorso di solidarietà materiale e politica con VOI.

Percorso, che, rimettendo in essere un internazionalismo di base  sempre presente tra i popoli, ci permetta al tempo stesso di mobilitare nelle nostre realtà le parti più coscienti delle masse lavoratrici, per contribuire a fermare e respingere la tempesta che- ora scatenata sulla Siria- finirà per dirigersi inevitabilmente anche sulle nostre terre.

Una prima causa della nostra presenza sta nel voler fissare chiaramente che il massacro di persone innocenti per la ripartizione della ricchezza mondiale non deve esser fatto “in nostro nome”: il silenzio che i nostri governi borghesi ci vorrebbero imporre non può essere scambiato per assenso. Vogliamo inoltre sviluppare una Campagna di aiuti materiali per lo stesso Campo di Yarmouk, simbolo di tripla valenza del martirio inflitto al popolo palestinese dall’imperialismo statunitense, dal sionismo e dalle forze reazionarie e oscurantiste dell’area. Per questo riteniamo necessario lo sviluppo coordinato di iniziative permanenti di:

–  denuncia, rigetto e contrasto delle illegali e criminali politiche estere che i governi occidentali -direttamente attraverso il loro braccio armato, la NATO, e indirettamente attraverso le loro strutture di cosiddetta sicurezza- praticano ormai da molti anni e che semplicemente coincidono con ingiustificabili aggressioni armate contro popoli, colpevoli solo di vivere in aree ricche di risorse naturali e/o  di volere conservare le loro identità e dignità nazionali senza totalmente piegarsi alle necessità delle forze imperialiste e di quelle sioniste o di essere gettate nell’inferno generato dalle forze reazionarie e oscurantiste;

– smascheramento dell’attuale guerra di brigantaggio e di ripartizione neocoloniale in atto contro la Siria. Aggressione visibilmente esterna e contrastata dalla quasi totalità del suo popolo che sta difendendo coraggiosamente ed a costi molti alti la sua dignità nazionale ed al quale va, naturalmente, la nostra totale solidarietà. Anche per la Siria, la criminale volontà imperialista di farvi nascere, sviluppare ed appoggiare una guerra civile si è concretizzata attraverso il solito copione politico-militare, povero di fantasia ma ricco di menzogne,  già utilizzato in Jugoslavia, in Afghanistan, in Iraq, in Libia.

Una seconda causa della nostra presenza sta nell’iniziare, proprio ora, a condividere sintesi politiche necessarie alle lotte per la nostra emancipazione di classe, di lavoratori. La crisi che attualmente scuote le fondamenta del modo di produzione e distribuzione del capitalismo e che sta spingendo le potenze imperialiste ad una nuova ripartizione del mondo, è naturalmente scaricata sulle nostre vite e qui, in Siria, se ne vedono con enorme dolore le sanguinose, mortali conseguenze. Ma anche da noi, specie in Italia seppure su di un piano assolutamente non comparabile, le sofferenze di coloro che vendono la propria forza lavoro per poter sopravvivere sono ormai pesantemente presenti e visibili. Le tensioni sociali e le difficoltà della classe dirigente a dare soluzioni economiche e politiche sono pareggiate qui in Italia sia dall’assenza di un riferimento organizzato capace di guidare le lotte delle masse popolari sia pregiudizio radicato ottenuto da decenni di incontrastata egemonia neoliberista, sulla impossibilità di alternativa al modello capitalista. È esattamente in uno scenario di questo tipo che:

1. la borghesia, progetta e pianifica una serie di radicali interventi nei quali mantiene un posto importante la creazione di una base di massa razzista, sciovinista, organizzata paramilitarmente da usare come forza d’urto contro la classe operaia e le possibili sue avanguardie in coagulazione;

2. il fascismo, nelle sue variegate articolazioni, assume a livello nazionale un linguaggio populista, “antisistema”, rispolvera le sue impotenti velleità socializzanti e dichiara a livello internazionale, la sua “antiamericanità”, il suo antisionismo e dà voce a dichiarazioni di solidarietà a nazioni sotto attacco occidentale come l’Iran, la Siria e la Corea del Nord. Utilizzando queste ambigue posizioni di sola forma, persegue l’obiettivo di infiltrarsi, in questo momento di estrema debolezza e grande confusione, nella base popolare proponendosi in parte in maniera cosciente e in parte “istintiva” come “stato maggiore” della costituenda forza d’urto a carico politico della borghesia.

 

Su questi due punti si incerniera l’interdipendenza della vostra lotta con la nostra. La vostra sconfitta, la sconfitta del popolo siriano, ovvero l’essere ingoiati nell’inferno generato dalle forze reazionarie e oscurantiste dell’area, porterebbe nel nostro paese, e non solo nel nostro:

3. al “rilascio” di uno sciame di terroristi operativi (nel senso di essere attori di un uso indiscriminato del terrorismo di massa), che genererebbe senza molta difficoltà una isterica campagna mediatica per la sicurezza da ottenere ad un qualunque prezzo.

E questo prezzo, stabilito dall’unico soggetto in grado di fondere ed utilizzare i su indicati tre punti, ovvero il capitale finanziario globalizzato, sarebbe nient’altro che l’inserimento, per il governo del nostro paese, di una nuova forma fascista di Stato adeguata a garantire una repressione ed uno sfruttamento senza regole né limiti delle masse popolari e della classe operaia.

Ecco perché è importante da parte di noi tutti valutare con esattezza il nemico e concentrarsi sulla individuazione dei passaggi che sinergizzano le sue azioni. Coordinarsi per sbarrare questi passaggi significa, in questa fase, anche dare battaglia alle forme di fascismo: si chiamino in Italia Avanguardia Nazionale, Terza Posizione, Casapound Italia, Rosso-bruni, Forza Nuova; siano da voi espressione delle forze oscurantiste e reazionarie.

Il fascismo non e è mai stato, non è e non sarà la soluzione emancipatrice per gli sfruttati.  È solo uno degli efficaci strumenti della dittatura di classe delle varie borghesie: la Storia lo ha dimostrato, lo sanno direttamente i Partigiani italiani che hanno sottoscritto questa dichiarazione, lo sappiamo noi tutti attraverso l’esperienza delle nostre lotte.

Una terza causa della nostra presenza sta nella volontà di discutere la necessità e la maniera di definire e sviluppare tra noi scambi e relazioni che concorrano a rimettere al centro obiettivi e strumenti adeguati per la nostra emancipazione di classi subalterne, avendo sempre presente la interdipendenza tra specificità nazionale e contesto internazionale. Come comunisti, e portatori di estremo rispetto e di unità con tutte le forze popolari organizzate sulla base dell’anticapitalismo e dell’antimperialismo, sosteniamo che sia matura l’assunzione di un appello per riprendere i punti fondanti dell’internazionalismo proletario, che assumerà, più che nel passato per gli evidenti effetti della globalizzazione dei rapporti di forza esistenti, una funzione imprescindibile.

 

Firme dei Partigiani italiani, Collettivi, Movimenti, Coordinamenti:

 

MARCELLO CITANO – Partigiano “SUGO” della 22 bis Brigata d’Assalto Garibaldi “Vittorio Sinigaglia”

Coordinamento comunista toscano

Brisop

Cellula comunista rivoluzionaria

Coordinadora Guevarista Internacionalista

Rivista comunista Nuova Unità

Comitato comunista “Fosco Dinucci”-Firenze

Circolo “Partigiani sempre”- Tristano Zekanowsky- Viareggio

Centro di documentazione “Gino Menconi”-Massa

Collettivo “Noi saremo tutto”- Genova

Area città futura del P.R.C. di Pisa

Comitato “Ricordare la Nakba”- Viareggio

Frente accion revolucionaria- Argentina

Movimiento revolucionario oriental- Uruguay

Saluto e intervento al VI Incontro Guevarista

¡Camaradas!

Envíamos de Italia un saludo a todas y a todos los participantes al Sexto Encuentro de la CGI. Nos acompañan, hoy, en este intercambio militante, amigos y camaradas -entre ellos Lorenzo Cosimi, Secretario del Partido de la Refundación Comunista de Livorno- que tomarán en seguida la palabra para brindar informaciones sobre el cuadro político en el cual, nosotros, nos encontramos luchando.

El momento actual, en nuestro país, es para todos nosotros muy dificil. En realidad resulta también dificil, aunque de distinta misura y manera, para el enemigo. Las características históricas que condicionaron la formación del rapaz y raquítico capital financiero italiano se hacen presente como factores que están sinergizando, en el interior del horno en el cual se desarrollan las contradicciones de todo el sistema de producción capitalista, las específicas debilidades de su burguesía, de la burguesia italiana; con relación a estas mismas específicas debilidades, que muestran de manera más clara que en otros países como sean irresolubles las contradicciones de clase, hemos evaluado, conjuntamente a otros grupos marxistas y leninistas, necesario y posible retomar de manera abierta el planteamiento de construir una sociedad socialista como única solución para la libertad política y económica de las clases subalternas: dando los primeros pasos para empezar a crear las condicione teóricas y de organización coherentes con esta asunción. En este marco y debido a la correlación concreta de fuerza, un lugar importante lo tiene el trabajo político coordinado -implementado por los sobredichos grupos y también por comunistas revolucionarios aislados- para recuperar la memoria de clase; la memoria histórica; la evaluación crítica de las experiencias política y económica de transicción al socialismo; las categorías analíticas marxistas y leninistas y sus instrumentos propios y adecuados al presente: entre ellos y bandera de la CGI, el internacionalismo proletario, que tiene que ser definido por objetivos y practicas que sean coherentes a la presente fase; tarea que también serà retomada por camaradas que hablarán después.

La muy delicada fase del intento de construcción de un germen comunista revolucionario -los dos últimos sustantivos no son una redundancia sino una necesidad nacida por causa de una derrota histórica- nos obliga a no tenerle miedo al debate y a la confrontación con todas las otras realidades políticas que se declaren internos a una izquierda anticapitalista y antimperialista, realizando con ellas, si posible, trozos de caminos reciprocamente provechoso. Pero también nos obliga a un fuerte cuidado ideológico que tiene que ser necesariamente firme, afuera de consideraciones subjetivas, sobre todo tomando en cuenta la especificidad de la izquierda italiana. Sin este cuidado, está demostrado de sobremanera, cualquier intento de construcción está desinado al fracaso.

¡Camaradas! Esperamos que el Sexto Encuentro de la CGI se desarrolle positivamente: que nos brinde, por una análisis de clase, apoyo concreto a todos nosotros para entender mejor la compleja realidad que nos rodea; que nos indique acciones concretas y oportunas a implementar entre fuerzas comunistas.

El frente de lucha por el socialismo tiene que ser una trinchera sin solución de continuidad. En este contexto va nuestro apoyo y nuestra solidaridad: ¡a la lucha de emancipación de los pueblos contra el capitalismo y el imperialismo! ¡a las avanguardias representatadas por las FARC y el FPLP! ¡a su Secretario Ahmad Saadat ilegalmente encerrado en las carceles sionistas!

CCR – BRISOP

Come compagne e compagni  da anni impegnati sul fronte internazionalista, riteniamo prioritario sviluppare in modo sistematico, l’analisi e la comprensione della lotta di classe a livello internazionale, considerata la fase di capitale finanziario globalizzato nella quale operiamo. Il fronte dello scontro è continuo e la pratica concreta dell’internazionalismo proletario diviene sia un potente strumento di crescita politica soggettiva e collettiva, sia un ponte di solidarietà di classe costruito per essere percorso nei due sensi. Il nemico di classe ha sempre lavorato costruendo fronti internazionali di guerra e di attacco terroristico a tutte le esperienze e i tentativi di cambiamento della società. A livello dirigenziale, l’esperienza accumulata in Centramerica è stata trasferita al medio oriente. Rimarchiamo brevemente alcuni fatti: Il piano del Pentagono chiamato “Opzione Salvador per l’Iraq”, che si ispirava e prendeva come modello le operazioni sotto copertura compiute in Centramerica, iniziato nel 2004, fu portato avanti sotto la guida dell’ambasciatore statunitense in Iraq John Negroponte (anni 2004-2005), congiuntamente a Robert Stephen Ford, che fu nominato ambasciatore per gli Stati Uniti in Siria nel gennaio 2011, meno di due mesi prima dell’inizio dell’insorgenza armata diretta contro il governo di Bashar Al Assad.  “L’opzione Salvador” è un modello terrorista di uccisione di massa da parte degli squadroni della morte sponsorizzati dagli Stati Uniti, utilizzato per la prima volta nel Salvador, quando la resistenza contro la dittatura militare era all’apice ,che provocò circa 75.000 morti. John Negroponte aveva prestato servizio come ambasciatore degli Stati Uniti in Honduras dal 1981 al 1985. Come ambasciatore a Tegucigalpa, aveva giocato un ruolo chiave nel sostenere e supervisionare i mercenari della Contra in Nicaragua che erano stanziati in Honduras. Gli attacchi oltre confine della Contra verso il Nicaragua costarono la vita a  circa 50.000 civili. Nel 2004, dopo aver servito come direttore dell’Intelligence nazionale nell’amministrazione Bush, John Negroponte fu nominato ambasciatore degli Stati Uniti in Iraq, con un mandato molto specifico: la costruzione dell’”Opzione Salvador” in Iraq.  L’ambasciatore statunitense in Siria (nominato nel gennaio 2011), Robert Stephen Ford aveva fatto parte dell’equipe di Negroponte all’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad (2004-2005). Ford ha anche avuto un ruolo nel reclutamento di mercenari Mujahideen dai paesi arabi vicini e nella loro integrazione nelle “forze di opposizione” siriane.

Anche in seguito alla sua partenza da Damasco, Ford ha continuato a sovrintendere la progettualità sulla Siria come si evince da alcune sue dichiarazioni. E soprattutto il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, in collaborazione con numerose agenzie di intelligence statunitense e con il Pentagono, ha supervisionato e supervisiona il sostegno degli Stati Uniti all’”esercito libero siriano”. Il vero e proprio reclutamento dei terroristi mercenari, comunque, è portato avanti in Qatar e Arabia Saudita in collegamento con gli ufficiali dell’intelligence turca, saudita, qatariota, libica e della NATO più alti in grado. A questo nefasto flusso terroristico, noi come comunisti e comuniste abbiamo il dovere di opporre un flusso di direzione contraria, praticando concretamente l’internazionalismo proletario.

Cosa intendiamo per “pratica concreta dell’internazionalismo proletario”: le conoscenze reali, materializzate attraverso scambi tra militanti comunisti, dei rispettivi scenari di lotta; i momenti comuni di studio e di solidarietà tra militanti comunisti che intercettano le rispettive strategie di classe tanto proprie quanto dell’avversario; la definizione di progetti comuni per la nascita di strutture culturali e di propaganda, ma anche legali, rispettivamente per la implementazione viva del materialismo storico e del materialismo dialettico e per la difesa dei militanti comunisti.

Ed è in questo contesto che si situa la nostra proposta di una missione di solidarietà che si recherà nel campo profughi palestinese di Yarmouk in Siria.

Due anni fa abbiamo incontrato i compagni palestinesi del FPLP del campo profughi di Yarmouk, a Damasco. Questo incontro resta, per noi, un legato politico. Lo resta negli impegni: come quello di sviluppare una campagna per la liberazione di Ahmad Saadat. Lo resta nella memoria: come la convinzione della loro volontà di lotta per tornare a essere un popolo. Questa legittima e eroica lotta, riconosciuta anche dalle Nazioni Unite, passa, purtroppo necessariamente, per un difficile scontro militare col terrorismo di stato sionista; a differenza, però, di altre organizzazioni palestinesi, la resistenza dei compagni di Yarmouk non poggia su pilastri razziali o religiosi ma su una visione laica e socialista. In questo contesto, non esistono evidentemente altri bastioni politici e culturali in grado di opporsi al tentativo al-qaedista, o di altre realtà ad essa assimilabili, di egemonizzare i frutti della disperazione e della frustrazione prodotti oggettivamente dalla vita nei campi profughi. Eppure queste frazioni terroristiche, che ricordiamo essere considerate dagli Stati Uniti e dall’Occidente, specie dopo l’attentato dell’11 settembre, il “male assoluto” da distruggere a tutti i costi, sono oggi tollerate e appoggiate proprio nel loro tentativo di “ingoiarsi” Yarmouk.

Il paradosso è solo apparente.

La crisi e la guerra, binomio oggettivo e inscindibile del capitalismo monopolista, sono l’attuale strategia concretamente utilizzata per addivenire a una nuova spartizione e rapina del mondo da parte del capitale finanziario globalizzato. Per questo suo obiettivo, la realizzazione del controllo reazionario e terroristico (fascismo) delle masse popolari arabe da parte dei Fratelli Musulmani e degli al-qaedisti è considerata un passaggio fondamentale. Contraddizioni etniche e religiose sono infatti contraddizioni che, una volta cancellata la lettura di classe, l’imperialismo può rendere antagoniste creando uno scenario nel quale la sua vittoria è pressoché assicurata.

 

A questa enorme pressione sono ora sottoposti i compagni di Yarmouk. Andare a Yarmouk significa fare un passo nella direzione della dialettizzazione di due punti: la necessità di ricreare un fronte di classe chiaro anche qui da noi, che separi le nostre responsabilità da quelle della borghesia al governo, che persegue le politiche criminali  e l’evidenza della irriformabilità del capitalismo che necessita della guerra, interna ed esterna per garantire la sua riproduzione.

La presenza di compagne e compagni italiani sarà particolarmente significativa se sarà anche sostanziata dalla presenza degli espulsi e espulse dal ciclo di lavoro capitalista: giovani precari, pensionati proletarie dedite ai lavori di cura. In quel segmento di classe, insomma, che ha il diritto, ma anche il dovere, di spiegare ai compagni che vivono questa terribile aggressione cosa significa oggi “democrazia” e capitalismo in Italia.

 

 

 

 

 

PER LA COSTRUZIONE DI UNA POLITICA COMUNISTA RIVOLUZIONARIA E DELLA ADEGUATA ORGANIZZAZIONE PER LA LIBERAZIONE DI CLASSE!

!

 0. Ma chissà da dove , saliva sull’Europa il presentimento che il futuro avrebbe distrutto tutti i piani del presente. (“Il buon soldato Sc’vèik” di Jaroslav Hašek)

 

Come compagne e compagni di base che hanno mantenuto -ovunque si siano trovati- una lettura marxista degli accadimenti politici in atto e una chiara consapevolezza della soluzione comunista come unica soluzione per la libertà degli uomini e delle donne appartenenti, ugualmente a noi, alle classi subalterne:

ci sentiamo obbligatia rivolgere ai nostri fratelli e sorelle di classe un pressante appello

per reagire, da ora, come comunisti organizzati contro la barbarie criminale di questa società diretta da speculatori e profittatori che vuole toglierci il presente e il futuro. Per rendere concreta questa volontà di reagire, bisogna purtroppo assumere che le sconfitte strategiche subite a livello nazionale e internazionale dalla classe lavoratrice hanno reso inservibili per le nostre irrinunciabili e semplici esigenze, quegli strumenti ancora oggi propagandati come la soluzione universale della crisi sistemica che ci sta soffocando, ovvero: il modello economico come ora si configura; i partiti, intesi come insieme omogeneo, che lo supportano; le elezioni che ciclicamente lo suffragano. Siamo del parere che la percezione della inservibilità di questi strumenti sia patrimonio ormai di molte e di molti. Partendo da questa ipotesi vogliamo, con questo contributo, abbozzare una riflessione-analisi di classe sulla nostra situazione per tentare di iniziare un percorso che dia vita a nuove forme di organizzazione e lotta politica le quali garantiscano a noi, come classe lavoratrice complessiva, le irrinunciabili e semplici esigenze -diritto al lavoro e alla cultura per una vita dignitosa; diritto alla dignità attraverso un lavoro e la cultura- che sono il nostro presente e il nostro futuro. È un fatto che la situazione risulta “oggi, peggio di ieri”.Questa affermazione ha, per noi classi subalterne, validità di legge oggettiva nella presente fase di capitalismo finanziario globalizzato: legge oggettiva, significa che il fenomeno che essa descrive continuerà sinché le cause che lo generano non verranno eliminate ed è quello che ci ha obbligato a riflettere, per agire. La legge “oggi peggio di ieri” ha nel nostro paese, per molti di noi, un senso preciso ad iniziare dal 2007; ma in generale, come classe complessiva, ciò che ci è venuto addosso ora si è presentato ripetute volte, sotto condizioni e forme diverse, dall’inizio del secolo scorso. Una nostra limitazione, non secondaria, è la mancanza di memoria storica, di memoria politica. Questa ciclicità delle crisi, sempre pagate dalle masse popolari, sottende dunque una patologia sistemica incurabile del modo di produzione capitalistico; alla quale, le classi dirigenti che si sono succedute, hanno associato una loro criminale soluzione, parimenti ciclica: la guerra. Crisi e guerra sono quindi le caratteristiche oggettive, ora potenziali ora reali, che il capitalismo ci scarica addosso durante tutto l’arco della nostra vita: la crisi è in questo momento un fatto reale, che subiamo direttamente, ma in essa già si manifestano le condizione per una nuova guerra. In realtà per molti popoli questa guerra è già iniziata. Quello che stiamo dicendo è facilmente riscontrabile e la sua risultante altro non è che la nostra impossibilità a modificare le caratteristiche fondanti, a noi nemiche e tendenzialmente mortali, del modello economico attualmente dominante. I 65 anni dell’entrata in vigore della Costituzione sono lì a sottolinearlo e sono una dimostrazione dirimente di questa impossibilità. Chi nel contesto odierno continua a chiederne la realizzazione, intendasi di quei patti-principi che si trovano in essa solo grazie ai rapporti di forza usciti dalla Liberazione, e che direttamente ci interessano: diritto al lavoro (Art.4); alla uguaglianza (Art. 3); alla pace (Art.11); alla difesa contro il fascismo (DTF, XII),sta prendendoci solamente in giro.

C’è una sola soluzione a tutto ciò. La soluzione è l’uscita dal modello capitalista, cioè nella costruzione di una organizzazione sociale economico-politica che tagli l’interdipendenza tra la produzione sociale dei beni e il profitto individuale di chi se ne appropria. Contro questa soluzione, per quanto complessa, non è possibile evocare nessuna “legge universale” (scientifica, economica, etica) che la dimostri impossibile: al contrario, il suo stesso “dna” implica una strutturale riduzione dell’entropia del processo economico. Storicamente, come sappiamo, la costruzione di questa soluzione è stata tentata: ci riferiamo cioè alla gloriosa, complessa e incompiuta esperienza iniziata dal movimento comunista con la costruzione della Unione Sovietica. Esperienza che valutiamo e analizziamo criticamente nel suo complesso e che deve essere necessariamente contestualizzata alle condizioni storiche ed economiche che l’hanno prodotta.

Ma tornando all’oggi, le concrete condizioni economiche e politiche nelle quali siamo soffocati ci obbligano, come prima accennato, a riconoscere che tanto gli usuali strumenti di difesa dei nostri diritti -partiti, sindacati- quanto l’unico momento di apparente decisionalità, falsamente fatto coincidere con la “democrazia” -le elezioni- non abbiano ormai nessuna validità, non ci rappresentino assolutamente più. Tali concrete condizioni hanno riportato pesantemente indietro, per noi lavoratori, le lancette della Storia e, parimente, ci obbligano a reagire in modo organizzato, iniziando a tracciare un cammino che risulta, attualmente, privo di qualunque punto di riferimento. È nostro compito di comunisti recuperare l’unica “bussola” capace di non farci smarrire nella implementazione di questa marcia la cui lunghezza non conosciamo esattamente. Lo sviluppo adeguato del contenuto espresso dalle cinque righe sottostanti ci indica dove la “bussola” si trovi:

 

Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. (…) Quale è il partito d’opposizione che non sia stato tacciato di comunista dai suoi avversari che si trovano al potere? E quale è il partito di opposizione, che, a sua volta, non abbia ritorto l’infame accusa di comunista contro gli elementi più avanzati della opposizione (…)? È ormai tempo che i comunisti (…) alla fiaba dello spettro del comunismo contrappongano …

 

L’ora di “contrapporre” si sta nuovamente presentando alle avanguardie delle classi subalterne. Sul piano teorico, questa “contrapposizione” non potrà che realizzarsi attraverso l’uso dialettico della analisi e del metodo che il marxismo e il leninismo hanno lasciato alle organizzazioni comuniste rivoluzionarie: in esso sta la possibilità di capire, spiegare e indicare il superamento del sistema di produzione capitalista nelle attuali sue specificità di capitale finanziario globalizzato. Il comunismo non è certo morto e lucida è la convinzione delle borghesie mondiali di come esso sia l’unica forza teorica e pratica capace di scardinare la società capitalistica. L’assunzione viva del marxismo e del leninismo è dunque un primo passo comune per riportare noi comunisti ad essere la figura visibile della coscienza di classe del proletariato. Parimenti, sul piano della prassi questa “contrapposizione” dovrà sviluppare il centrale nodo della iniziale struttura organizzativa che deve risultare necessariamente coerente a questa fase, tema che riprenderemo nel punto 2. con l’obiettivo di metterlo alla discussione e alla verifica. Nel tutto, teoria e prassi, si presenta poi la specifica attenzione ai temi dell’antifascismo militante, dell’internazionalismo proletario, del rapporto con le istituzioni e la democrazia borghese all’interno del marcato degrado della concreta situazione italiana.

Queste problematiche, come si sa e come già detto, sono state affrontate -in parte risolte e in parte no, sino a implodere nella fine della esperienza socialista- dai comunisti che ci hanno preceduto. Con esse occorre confrontarsi e fare i conti: cose che nel contesto del presente contributo pensiamo di innescare sintetizzandole brevemente nel punto immediatamente successivo.

 

1. Una riflessione sui limiti storico-economici e sulla attualità politica della 1ª esperienza socialista.

 

Con la vittoria della Rivoluzione russa e il conseguente azzeramento delle precedenti strutture economiche e politiche dominanti, i sovietici credevano possibile l’eliminazione di quei molti problemi di fondo che impedivano lo sviluppo del paese per raggiungere gli obiettivi strategici che erano la ragione stessa della Rivoluzione. Questi obiettivi strategici, finali, possiamo “scolpirli” attingendo direttamente dalla “Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS” edito a Mosca nel 1938: “Lenin” -ritornato in Russia il 3 aprile 1917 dopo 10 anni di espatrio- ”volle che il Partito smettesse di chiamarsi Partito socialdemocratico per adottare il nome di Partito Comunista … visto che la meta era il raggiungimento del comunismo … che significa “Da ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue necessità””. I sovietici si accorsero però presto che le loro aspettative erano duramente contraddette dai fatti. Nel 1922 nell’XI° Congresso del Partito Lenin affermava infatti: “Saprete voi comunisti, voi operai, voi parte cosciente del proletariato che si è accinta a dirigere lo Stato, saprete voi fare in modo che lo Stato che avete preso nelle vostre mani funzioni a modo vostro? Ed ecco, un anno è trascorso; lo Stato è nelle nostre mani, ma ha forse funzionato a modo nostro, nelle condizioni della nuova politica economica? No. Noi non vogliamo riconoscerlo: non ha funzionato a modo nostro. E come ha funzionato? La macchina sfugge dalle mani di chi la guida; si direbbe che qualcuno sia seduto al volante e guidi questa macchina, che però non va nella direzione voluta, quasi fosse guidata da una mano segreta, illegale, Dio solo sa da chi, forse da uno speculatore o da un capitalista privato o da tutti e due insieme. Il fatto è che la macchina va non nella direzione immaginata da chi siede al volante, anzi talvolta va nella direzione opposta. Questo è quel che più conta e che si deve ricordare nella questione del capitalismo di Stato. In questo settore fondamentale bisogna studiare incominciando dal principio, e solo quando saremo completamente convinti di questo e ne saremo coscienti, potremo essere certi che impareremo.”. Dunque, in un contesto di consistente appoggio popolare e di potere politico incontrastato, gli obiettivi intermedi legati all’improrogabile sviluppo del paese non solo non venivano raggiunti ma quel che è peggio la sua direzione economica risultava parzialmente fuori controllo. Così, i profondi mutamenti istituzionali realizzati dalla Rivoluzione in Russia, di per se stessi non avevano:

– modificato la complessa dipendenza del settore industriale dal soverchiante settore agricolo;

– permesso la pianificazione per uno sviluppo industriale assunto come priorità centrale;

– eliminato l’acuta scarsità d’informazioni economiche e di forza lavoro specializzata.

È questa concreta situazione che polarizza quelli che abbiamo chiamato “limiti storico-economici” oggettivi della 1ª esperienza socialista, e che possiamo indicare come il primo fattore ostativo. Il nostro presente, come realtà capitalista industrializzata, non dovrà chiaramente farci i conti. Ma questo non era tutto per la Russia sovietica. Esisteva una ulteriore oggettiva difficoltà, ovvero la politica dell’imperialismo che la boicottava economicamente, le negava i crediti internazionali, le costruiva perennemente le condizioni per scatenare contro di lei una aggressione militare, del resto più volte avvenuta: ecco il secondo fattore ostativo. Questi due fattori, di enorme sinergica importanza negativa, non permisero la nascita e il conseguente sviluppo di una forma economica -teorica e pratica- fondata su relazioni di produzione socialiste. La produzione sovietica -assunta poi come modello di riferimento universale per l’intero blocco socialista futuro- rimarrà una produzione di merci, di beni, cioè, destinati allo scambio e non alla soddisfazione delle necessità. Con ciò, la presenza della forma valore all’interno della 1ª esperienza socialista denunciava il ripresentarsi, anche se sotto nuove forme, di determinati e precedenti rapporti sociali che necessariamente producevano vantaggi differenziali di classe; l’implosione dell’Unione Sovietica lo avrebbe poi confermato senza possibilità di errore.

Ma, come prima sottolineato, gli accadimenti sovietici vanno visti nel complesso e nel contesto e la finalità della analisi critica della 1ª esperienza socialista ha per noi un senso nella necessità di doverne sviluppare una 2ª. Antidialettica e quindi inservibile una critica che focalizzasse esclusivamente i risultati indotti dai due fattori ostativi (uno “ereditato” dallo zarismo, l’altro voluto dall’imperialismo) senza considerare le conquiste politiche, sociali, culturali, economiche realizzate dalle masse lavoratrici sovietiche; la loro vittoriosa lotta a morte contro il fascismo e il nazismo anche come precondizione per l’emancipazione delle classi subalterne di tutta l’Europa; l’appoggio concreto della Unione Sovietica alle lotte di liberazione dei popoli del Sud del mondo. Fatti e sentimenti che spiegano, alla sua implosione, la gravità del colpo subito dal Movimento Comunista e Antimperialista nel suo complesso. Ora, esattamente nella fase che stiamo vivendo, risulta chiaro come la 1ª esperienza socialista sia stata un momento di necessaria transizione verso concreti e oggi possibili livelli di più alto e integrale sviluppo del genere umano. Una esperienza, dunque, che non può essere valutata secondo un “aritmetica” di risultati politico-economici presi in valore assoluto ma che va collocata storicamente: insomma, né prematura né tantomeno obsoleta ma un riferimento che resta attuale per le classi subalterne. Così come l’esperienza del mercantilismo, fuori da una proporzione temporale, è stata una condizione necessaria dello sviluppo del modo di produzione capitalista, così l’esperienza sovietica, comunque incompiuta e infine implosa, risulta un passaggio di riferimento imprescindibile per la costruzione del modo di produzione socialista di oggi.

 

1.1. La specificità del movimento comunista italiano nella polarizzazione della 1ª esperienza socialista.

 

Nel quadro di una forte e contraddittoria interdipendenza con la 1ª esperienza socialista, incompiuta e infine implosa, muoverà i suoi primi passi e si svilupperà la dirigenza del Partito Comunista d’Italia (PCd’I), Sezione (italiana) della III Internazionale. Per tentare di “scolpire” criticamente una prassi che fu propria della dirigenza comunista italiana, sempre come tale riconosciuta dal partito nella sua quasi totale generalità, ci sembra efficacie giustapporre le risposte che essa dette ai momenti di crisi rivoluzionaria del 1921-1926 e del 1944-1948, a quelle date dalla dirigenza bolscevica a analoghe situazioni di criticità: ovvero 1903-1907 e 1917-1922. L’evidente differenza che da questa giustapposizione si evincerà relativamente all’agire oggettivo e soggettivo dei due gruppi dirigenti, costituisce l’iniziale fattore che, poi riproducendosi, riuscirà a coagulare nel tempo una soggiacente linea politica, vettore, già alla fine degli anni ’50, di una totale e “propositiva” compatibilità con il capitalismo da parte del partito comunista italiano. Per la giustapposizione della prima coppia di periodi svilupperemo una sintetica argomentazione, mentre per la seconda, di lettura analoga, indicheremo solo i punti qualificanti.

 

1903-1907, Russia: nel primo di questi cinque anni, dopo la rottura, in agosto, con i menscevichi, nasce la dirigenza bolscevica che mette in essere la costruzione del partito rivoluzionario della classe operaia, il cui programma e la cui organizzazione assumono come necessario e ineludibile, nelle concrete condizioni del paese, la costruzione di una dottrina e di una struttura militare. La correttezza di questa impostazione si avrà dalla “prima” Rivoluzione, scoppiata nel 1905 a causa delle impossibili condizioni di vita delle masse popolari, dei soldati e dei marinai nel contesto della sconfitta militare subita dallo zarismo ad opera del Giappone. Analizziamo brevemente la prassi della dirigenza bolscevica: i militanti e i quadri bolscevichi di tutto il paese andranno a dirigere, per quanto fu loro possibile, gli scontri armati e comunque a parteciparvi; addestreranno militarmente operai e contadini organizzandoli in milizie popolari armate; fomenteranno e parteciperanno agli ammutinamenti dell’esercito e della marina; organizzeranno acquisti di armi all’estero e il loro trasporto clandestino in Russia. Dirà un dirigente bolscevico: “Cosa ci occorre per ottenere la vittoria? Armamento, armamento e più armamento”. Se la sconfitta, nel 1907, della “prima” Rivoluzione -sconfitta di fatto militare nella quale l’esercito ebbe il ruolo più importante anche coadiuvato da forze equivalenti allo squadrismo fascista, i “centoneri”, organizzate dalla borghesia reazionaria- renderà impossibile gli obiettivi dati dalla dirigenza bolscevica, la eliminazione del potere zarista e l’instaurazione di una repubblica democratica come primo passo verso il socialismo, ciò nondimeno la pratica dell’esperienza rivoluzionaria di decine di migliaia di proletari, di contadini e di soldati, di cui diverse migliaia organizzati in milizia popolare armata, fisserà risultati fondamentali per il futuro, ovvero: creerà quell’embrione di potere popolare, i “Soviet”, che sarà un riferimento di lotta e che infine si affermerà come struttura di governo rivoluzionario popolare; creerà la convinzione nell’avanguardia delle masse popolari di poter raggiungere i propri obiettivi politici; creerà una rete di quadri di partito sperimentati che saranno decisivi per la vittoria della “terza” Rivoluzione, quella di Ottobre.

 

1921-1926, Italia: nel primo di questi cinque anni, dopo la scissione del gennaio con i socialisti, nasce la dirigenza del PCd’I il cui quadro di riferimento si trovava nella adesione e nella partecipazione alla III Internazionale (fondata nel 1919) e nella costruzione delle condizioni di una Rivoluzione socialista nel proprio paese. La lotta di classe in atto si manifestava con estrema asprezza e più volte sotto la forma di scontro armato. Il contesto è quello del post-guerra mondiale, nel quale centinaia di migliaia di operai e contadini sapevano usare le più moderne tecniche e tattiche di combattimento al pari di qualunque esercito professionale (del resto questo era allora comune a tutta l’Europa); le armi, inoltre, “giravano” non vi era certo la necessità di “comprarle all’estero e trasportarle poi in forma clandestina”. Nonostante l’iniziale ambiguità -ricordiamo il confuso, e manipolato, ribellismo presente in molti aderenti ai fasci di combattimento che si evince dai contenuti del programma di “San Sepolcro” del 1919- il fascismo stava colpendo politicamente e, soprattutto, militarmente le organizzazioni politiche e sindacali e le soggettività stesse del proletariato e delle masse lavoratrici italiane. A fronte di ciò, la dirigenza italiana non prenderà nessuna decisione strategica nonostante la pressione di molti militanti di base e di quadri per organizzare una risposta armata (cosa unica nella storia dei partiti comunisti, escluso quello salvadoregno nel 1970) e nasconderà la sua inadeguatezza e la sua indecisione dietro valutazioni totalmente contraddittorie. Quanto affermiamo è reso manifesto dalla più alta carica del partito, il segretario generale Palmiro Togliatti. A sconfitta avvenuta e non “a caldo”, egli, rispettivamente nel 1928 e nel 1932, sintetizzerà:

 

– “perché” il fascismo era più forte: “… il fascismo non era unicamente reazione capitalistica. Esso comprendeva nello stesso tempo molti altri elementi. Comprendeva un movimento delle masse piccolo-borghesi rurali; era anche una lotta politica condotta da certi rappresentanti della piccola e media borghesia contro una parte delle antiche classi dirigenti; era un tentativo di creare una organizzazione unificata, estendentesi a tutto il paese, raggruppante una frazione di piccoli borghesi delle città diretti da elementi declassati (ex-ufficiali, disoccupati professionali); era infine una organizzazione militare che poteva pretendere di opporsi con probabilità di successo alla forza armata regolare dello Stato”;

 

– “perché” il partito non poteva rispondere al fascismo sul piano dello scontro armato: “La storia della lotta del proletariato italiano contro il fascismo, prima della marcia su Roma, è una storia di combattimenti staccati, che non riescono a fondersi insieme, nel corso dei quali il proletariato non riesce a unire tutte le sue forze in un unico fronte organizzato. È vero che noi eravamo un piccolo partito di 30.000 membri, appena uscito da una scissione, ben lontano dal possedere e persino dal comprendere bene quali sono le qualità e quali sono i compiti di un partito bolscevico”.

 

Da questa prima giustapposizione escono evidenti i limiti, la inadeguatezza e la contraddittorietà dell’analisi e dell’agire della dirigenza del PCd’I. Da una parte, essa afferma la possibilità per uno spezzone di classe subalterna -piccoli borghesi guidati da elementi declassati- di organizzarsi militarmente in maniera molto efficace; dall’altra, tale identica possibilità nega per la parte di classe subalterna, il proletariato, di cui essa stessa ha la direzione; laddove poi questa impossibilità risulta smentita, la si riduce a “combattimenti staccati”, disuniti e disorganizzati. I commenti sono superflui. I “combattimenti staccati” che i militanti e i quadri di diverse realtà territoriali daranno in forma organizzata e unitaria -questa forma, gli “Arditi del Popolo”, sarà rigettata dalla dirigenza che proibirà ai propri militanti qualunque contatto con essa- produrranno clamorose vittorie che riecheggeranno tra le masse popolari. Vittorie che tanto la dirigenza bolscevica quanto quella della III Internazionale segnalarono più volte, a quella italiana, come esempi da moltiplicare invitandola a mettere organicamente mano alla costruzione di una risposta militare unitaria. Segnalamenti, come si vede, risultati del tutto inutili. Non meraviglia quindi che sino alla vigilia delle misure dittatoriali prese dal governo fascista e divenute operative il 6 novembre del 1926, la dirigenza comunista abbia continuato a voler assurdamente fare presenza nell’inesistente dibattito parlamentare, offrendosi indifesa agli arresti che, a partire da quello di Antonio Gramsci avvenuto l’8 novembre del 1926, la falcidieranno. Non c’è male per un partito che appena nove mesi prima, al suo III Congresso a Lione, aveva deciso, nelle tesi politiche, la sua “trasformazione bolscevica”. [Vedi in “ALLEGATI” i “21 Punti della III Internazionale (1920)” e i “10 Punti del Congresso di Livorno (1921)”]

 

La lettura della seconda giustapposizione -1917-1922 in Russia con 1943-1948 in Italia- è assolutamente equivalente alla prima. La differenza sta solo nel verso del loro sviluppo: negativo per la prima giustapposizione, positivo per la seconda. La premessa di questa positività, costruita fondamentalmente dalle sconfitte militari inflitte dalla Armata Rossa al nazifascismo, è però, in Italia, anche il prodotto dell’enorme lavoro politico realizzato tra il 1926 e il 1943 con coraggio e sacrifico dai militanti e quadri comunisti. Stante questa grandiosa e sottovalutata esperienza popolare, che si coagulerà nella Resistenza armata, la dirigenza italiana dell’ora Partito Comunista Italiano (PCI), nella consueta maniera contraddittoria, assumerà l’accezione passiva dell’indicazione data dalla dirigenza sovietica della necessità di “arrotolamento” di potenziali sviluppi rivoluzionari nell’Europa sud occidentale: non un tentativo sarà fatto di autonoma analisi e di autonoma valutazione rivoluzionarie in un teatro, che, certo complesso, vedeva però avanguardie e percentuali importanti di popolo in Italia, Jugoslavia, Albania e Grecia disposte a lottare per una società socialista.

 

Analisi e autonomia rivoluzionarie che i partiti comunisti della Cina, della Corea e dell’Indocina invece rivendicheranno e applicheranno, nonostante l’analoga indicazione di “arrotolamento”.

 

Per quanto detto sulle dinamiche della lotta di classe in Italia, sarà quindi del tutto naturale il formarsi di una “forbice” tra un nucleo, certo fortemente minoritario, di compagni/e comunisti da una parte, e il PCI, nella quasi sua totalità, dall’altra. Questa “forbice” si materializzerà nel corso degli anni ‘60, anche sulla proiezione della rottura tra dirigenza sovietica e dirigenza comunista cinese, in una serie di scissioni che daranno vita ad altri partiti comunisti identificati, brevemente, come marxisti-leninisti. In modo formale e strumentale -sulla evidente base dell’esistenza delle diversità: vedi lo slogan “via italiana al socialismo” coniato da Togliatti- il marxismo e il leninismo erano però considerati come propria proprietà anche dal PCI. Il risultato concreto e finale di questo “scontro ideologico”, verificato e verificabile, è stato l’impoverimento, il degrado e infine la cancellazione dell’unico strumento teorico utilizzabile dalle classi subalterne per la loro emancipazione. Questo risultato si è poi configurato assolutamente funzionale per il settore maggioritario restato interno al prosieguo della parabola del PCI e ora stabilizzato in un partito, il PD, la cui dirigenza incarna e sviluppa le strategie e gli interessi di una precisa area capitalistica italiana.

Quando questa incarnazione risultò lampante e conclamata -nella “svolta della Bolognina” del novembre 1989, per intendersi- si ebbero a seguire, quasi obbligatorie per alcuni dirigenti più vecchi nati politicamente nel PCI, altre scissioni che dettero luogo ad altrettante formazioni mantenenti il nome “comunista”. In queste formazioni le dirigenze erano formate, in diverse rispettive percentuali, da “vecchi” che avevano, attivamente o passivamente poco importa, obbedito e servito sia alle logiche delle “soluzioni attraverso metodi amministrativi” che a quelle della “via italiana al socialismo” e da “giovani” i cui riferimenti economici, politici, etici risiedevano nel keynesismo, nella non violenza, nelle confessioni religiose. Ma non è tutto, ancora. Come pietra tombale su ciò che dichiarano di essere, queste formazioni “comuniste” ancora in viaggio per il cosmo politico dopo il “distacco” dal PCI, si presentano alle elezioni politiche del 2013 subordinate a soggettività che confondono la lotta alla mafia con la lotta di classe e lo Stato democratico immaginario con lo Stato concreto, strumento efficiente per il mantenimento del dominio di classe in mano al capitale finanziario globalizzato.

Esperienze così non potevano e non volevano costruire un percorso comunista: le conferme non sono mancate e non mancano, i risultati sono coerentemente arrivati, come si vede. Fallimentari, a volte ridicoli e a volte vergognosi: paradigmatico l’appoggio all’aggressione contro la Jugoslavia voluta dal governo D’Alema.

Alla crisi sistemica capitalista è ormai più che dimostrata l’impossibilità di rispondere dall’interno: i propositori e le loro proposte, “comunisti” o no, sono oggettivamente e soggettivamente superati e inservibili. Anche su questo dato nasce la nostra proposta.

 

È palese come, in questo grave contesto, altri gruppi sentano l’urgenza di far appello al dovere di dare vita a una politica e a una organizzazione comunista. Con essi ci confronteremo nella teoria e nella conseguente prassi.

 

1.1.1. L’implosione del movimento comunista italiano e la crisi economica riaprono la strada alla maschera del fascismo populista: questa strada va chiusa unitariamente.

 

L’implosione complessiva del movimento comunista italiano, sintetizzata nel punto 1.1., ha conseguentemente prodotto una lettura aclassista del fascismo e del suo concreto ruolo politico che ha rappresentato un fattore importante per l’esaurimento, nel tessuto stesso delle realtà popolari, del contrasto al fascismo. La “irruzione” della crisi economica applicata sulle fasce subalterne e sottoproletarie, è stata poi un secondo fattore che ha rafforzato la tenuta della sua maschera populista. Questi due fattori, tra loro sinergici, hanno costruito uno scenario che apre al fascismo la possibilità di bussare, con sue proprie proposte di “soluzioni” criminali, alla porta di segmenti “del capitale finanziario italiano”. È evidente come la dimensione della crisi permetta al fascismo di bussare anche alle porte di quelli greci, francesi, tedeschi e così via ed è questa sua “offerta” di servizi declinata contemporaneamente in Europa uno, tra altri, fatti da valutare e capire scientificamente. Per iniziare a farlo pensiamo sia utile, per noi, entrare nell’analisi del fascismo italiano in quanto prodotto di uno Stato borghese il quale, per garantire la sua supposta periclitante riproduzione, ha adottato “quella specifica” soluzione di direzione e controllo dittatoriale su base terroristica delle sue classi subalterne.

A monte di questa analisi, in seguito alquanto sinteticamente realizzata, enunciamo la sintesi principale che è da essa derivabile: l’esame comparato del rapporto tra la forma fenomenica del fascismo che tende, anche attraverso le sue eclettiche proiezioni ed esternazioni, a confondersi nella sovrastruttura complessiva acquistando così autonomia politica e la soggiacente reale e concreta sostanza-funzione storica del fascismo, rivela la sua oggettiva subordinazione al capitalismo e all’imperialismo. Sono cioè questi ultimi i fattori che oggettivamente “partoriscono” il fascismo, ovvero i motivi stessi della presenza del fascismo nella nostra società. Con ciò risulterebbe, ovvero risulta, chiaro il permanere del fascismo all’oggi, nonostante sia stato esso la causa di un epocale spargimento di sangue popolare di centinaia di migliaia di uomini e di donne del nostro paese, nonostante sia stato esso l’evidente strumento del regresso senza limite della emancipazione delle classi lavoratrici. Non può insomma esservi soluzione, nel quadro capitalistico, al “problema” fascista: un qualunque Stato borghese italiano non può eliminare il fascismo, cosa a cui la legge lo obbligherebbe, senza eliminare le relazioni di produzione che lo contraddistinguono e con ciò condannando se stesso all’auto-eliminazione per come attualmente è definito.

Il passato del fascismo: dall’inizio come amministratore delegato unico del capitale finanziario italiano, alla fine come servo dell’imperialismo tedesco. L’amministratore delegato unico è certo un pezzo importante nel “Monopoli” capitalistico; il padrone, però, lo può cacciare quando vuole e questo è esattamente il trattamento che ha ricevuto il fascismo italiano. Il fascismo come possibilità di organizzazione politico-militare nasce nel contesto della 1ª guerra imperialista e dei risultati da essa prodotti in Italia e in Europa. Gli iniziali aderenti del fascismo sono essenzialmente gli scontenti e velleitari reduci: già, in generale, ufficiali subalterni quelli appartenenti alla piccola borghesia, già, in generale, sottufficiali e graduati di truppa dell’esercito e dei corpi speciali (“Arditi”) quelli provenienti da distinti settori delle classi subalterne e dal sottoproletariato. L’insieme di queste eterogenee soggettività risulta accomunato da una parte, dal rigetto a riprendere il ruolo sociale che aveva precedentemente alla guerra, e, dall’altra, dalla volontà di “contare qualcosa” dopo i terribili anni della trincea. Questa vera e propria potenziale massa di manovra si darà in tutta Italia una labile forma organizzativa, attraverso la costituzione di sezioni di ex-combattenti, che la soggettività politicamente spregiudicata e genialoide di Benito Mussolini catalizzerà nella fondazione dei “Fasci italiani di combattimento” avvenuta il 23 marzo del 1919 a Milano nella sala riunioni di un circolo dall’Associazione Lombarda degli Industriali, in piazza San Sepolcro. I “Fasci” produrranno per il 6 giugno un loro manifesto politico, il “programma sansepolcrista”, alquanto confuso – utilizzante un linguaggio ambiguamente rivoluzionario e anticapitalista- che avrà però il risultato finale di licenziarli come una forza d’urto “sul mercato”, esattamente secondo gli obiettivi del loro dirigente. Il capitale finanziario italiano, caratterizzato da una altissima concentrazione nel settore industriale e bancario, con una decisione imprevista e spregiudicata penserà infatti a questo movimento fascista come al partito che avrebbepotuto assumere sia l’iniziale ruolo antioperaio di forza paramilitare basata sul terrorismo politico, che quello futuro di “amministratore delegato unico” dello Stato borghese. Penserà questo, in base alla sua propria valutazione della fase della lotta di classe in atto in Italia e alle insolute contraddizioni interne dell’imperialismo, in Europa, che la guerra appena finita, invece di risolvere, aveva peggiorato. Ed effettivamente, il fascismo, iniziando con la sua fase “squadrista” (1919-1921) e proseguendo poi come governo che impone, attraverso i “Sindacati fascisti dei datori di lavoro e dei lavoratori”, il monopolio della contrattazione collettiva, la soppressione del diritto di sciopero, la abolizione delle Commissioni interne di Fabbrica, la riduzione dei salari, e, direttamente attraverso l’esecutivo, l’uso della guerra come mezzo per garantire superprofitti ai monopoli, si proporrà e diverrà un efficace “amministratore delegato unico del capitale finanziario italiano. Il momento “squadrista” risulta certo quello per lui più pericoloso: ma sarà sempre sotto la diretta o indiretta presenza protettiva dell’esercito e della guardia regia, che lo “squadrismo” procederà alla sistematica distruzione delle strutture del movimento dei lavoratori. Sedi di partiti e di giornali antifascisti, case del popolo, camere del lavoro, leghe contadine, cooperative assaltate e bruciate, terrore fisico e assassinio di tantissimi dirigenti e militanti della sinistra, assieme a qualche cattolico, saranno comunque aiutati, tollerati, coperti. Al contrario, i tentativi di organizzarsi contro la violenza fascista saranno repressi dallo Stato sabaudo, complice una magistratura collusa, che colpirà selettivamente i dirigenti delle masse popolari. Su questo tema della difesa organizzata, bisogna, però, anche sottolineare il ritardo del Partito Comunista d’Italia, già prima focalizzato, che, pur essendo l’unica forza politica conseguentemente antifascista, non possedeva un nucleo di vertice realmente e concretamente rivoluzionario. Per questo, piaccia o no, né Bordiga né Gramsci riuscirono ad interpretare la fase (confusione che altri condividevano con loro: per esempio Clara Zetkin al IV Congresso della IC del 1922, vedrà il fascismo come una forza della piccola borghesia di fatto antagonista al capitale finanziario). Lo dice il fatto che l’unico tentativo articolato di difesa, la costituzione degli “Arditi del Popolo” che poneva come discriminante d’appartenenza la pratica d’azione antifascista- fu chiaramente sconfessato sia da Terracini (cioè Bordiga) che da Gramsci, nonostante le aspre critiche di Lenin; essendo pure un fatto, che, dove entrarono in azione gli Arditi del Popolo, i risultati chiaramente ci furono: Bari, Sarzana, Viterbo, Roma; Firenze, e soprattutto Parma. I responsabili che guidarono queste azioni erano ufficiali, o soldati con esperienza: Guido Picelli di Parma, Giuseppe di Vittorio di Bari, Alberto Acquacalda di Ravenna Giuseppe Mingrino di Roma.

In questo complessivo contesto, il 28 ottobre 1922,si darà la “marcia su Roma”. È il motivo che permette al re di incaricare Mussolini alla formazione di un governo a larga partecipazione. Vi confluiscono infatti liberali, nazionalisti e popolari, -questi ultimi,cioè, i futuri dirigenti della Democrazia Cristiana- assieme ad alti ufficiali dell’esercito e intellettuali come Giovanni Gentile che nel 1923 aderirà formalmente al fascismo (e, giusto venti anni dopo, alla cosiddetta “Repubblica Sociale Italiana” voluta e realizzata dai nazisti). Con il governo Mussolini il disegno del capitale finanziario italiano acquisirà definitiva concretezza.

Con reciproca soddisfazione, padroni e fascisti sfrutteranno sanguinosamente per più di due lunghi decenni, sino al 25 luglio del 1943, le masse popolari italiane. Questo non significa che tra il capitale finanziario e la struttura fascista siano mancate contraddizioni sulla gestione del potere; ma esse si sono sempre dialettizzate in una subordinazione politico-economica di quest’ultima rispetto al primo. Questa “vocazione subalterna” del fascismo ai padroni, tipica naturalmente dell’amministratore delegato, viene poi resa evidente da come il fascismo sarà cacciato dal governo del paese il 25 luglio del 1943: al darsi la sfiducia del “Gran Consiglio” a Mussolini per volontà di alcuni suoi membri legati organicamente alla monarchia e al capitale finanziario, TUTTO il baraccone fascista si squaglierà, fisicamente e politicamente, in maniera IMMEDIATA.

Servo dell’imperialismo tedesco. La riapparizione di Mussolini, nel settembre del 1943 -con l’associata ricostituzione del partito fascista (ora repubblicano) e la fondazione della cosiddetta “repubblica sociale italiana”- è voluta e realizzata dai nazisti e risponde esclusivamente alle loro necessità politico-militari ovvero alle allora necessità del capitalismo monopolistico tedesco. La dirigenza fascista, e non potrebbe essere altrimenti, lo sa senza ombra di dubbio. Memorie e interviste dei sopravvissuti di quella parte, lo riconoscono e lo dimostrano. Stragi, fucilazioni di massa, cecchinaggio; requisizioni contro la popolazione civile urbana e rurale; polizie “speciali” istallate installate nelle decine di “Ville Tristi” di tutto il centro-nord , ovvero bande di criminali esperti nel torturare, assassinare, “grassare”, ricattare; operai deportati nei lager nazisti, dai quali non torneranno, per avere scioperato, impianti industriali smontati e trasferiti in Germania; cessione al Terzo Reich delle province di Trento, Bolzano, Belluno (Zona d’operazioni delle Prealpi); Udine, Gorizia Trieste, Pola, Fiume, Lubiana (Zona d’operazioni del Litorale adriatico) rispettivamente sotto comando dei Gauleiter tedeschi del Tirolo e della Carinzia: sono questi gli atti concreti dei servi fascisti per fermare la Resistenza che sempre più crea problemi militari e politici ai nazisti e per garantire la sopravvivenza a un imperialismo tedesco sempre più in difficoltà.

Non c’è dunque assolutamente nulla , nella “repubblica sociale italiana”, della presenza né di una politica sociale ed economica che voglia realizzare una comproprietà azionaria, peraltro massicciamente sbandierata dalla macchina di propaganda fascista, tra padroni e operai delle fabbriche dove questi ultimi lavorano, né di una difesa dei confini e della integrità economica e culturale “della patria” da parte di un esercito “repubblichino” che “chiama” i giovani ad arruolarsi e che fucila in caso di renitenza.

Un dramma che sembrava “finito bene”. Dunque, il bilancio finale storico e morale del fascismo, ormai smascherato davanti alla maggioranza del paese come strumento dei padroni e servo dell’imperialismo tedesco, si chiudeva per lui con l’essere riuscito ad accentrare su di sé un odio popolare profondo. Tutto questo sembrava quindi, alla percezione della maggioranza delle classi lavoratrici, essere sufficiente per realizzare l’isolamento e l’eliminazione di quello che rimaneva del fascismo impedendo così per sempre la sua riapparizione. La Carta Costituzionale, più “prudente”, con la sua XII Disposizione Transitoria e Finale -“È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.”- pretendeva comunque fissarne la incompatibilità rispetto al nuovo ordine repubblicano uscito, in parte, anche dalla esperienza gloriosa della Resistenza.

Il presente del fascismo: con la crisi capitalista il fascismo “sociale” torna a bussare alla porta dei padroni.

Il fascismo non è, naturalmente, “riapparso” a causa della e con la crisi. Una citazione “illuminante” che noi utilizziamo è quella che riprende lo scritto del 1969 di un giovane missino dell’Università di Pisa che discettava sul sessantesimo, allora, anniversario della nascita del futurismo (20 febbraio 1909):

“… la rivoluzione futurista non si arresta solo alla contestazione della società, come insieme di norme morali, e della cultura passatista, ma spazia ancora più oltre, fino ad esigere l’esproprio delle terre in favore dei contadini, a porre teorie interessantissime … come l’azionariato sociale, primo passo verso la socializzazione. Programmi questi ultimi, attuati dai fascisti, il primo durante il ventennio, il secondo durante la RSI. Certamente per Marinetti … il fascismo ventennale altro non fu che la realizzazione minima di quella che è stata la rivoluzione culturale futurista … ancor oggi quanto mai valida e piena di mordente. Ho accennato dianzi alla RSI: l’ultima sua opera, esteticamente perfetta, e pervasa da un sentimento titanico di eroica religiosità è dedicata alla X MAS. In tale poema si sintetizza e palpita una visione del mondo, la Weltanschauung di Marinetti … esploso nelle stelle da lui conquistate. Ma le sue azioni-pensiero sono già una miccia pronta ad accendersi. Forse è già accesa”.

Dunque, la ricerca, a meno di 25 anni dalla Liberazione, di riproporre categorie politiche, economiche, sociali e culturali fondanti del fascismo, era già iniziata all’interno della società italiana, il che è anche una prova della sintesi da noi inizialmente preannunciata. La forte crisi capitalistica in atto, sta ora permettendo ai fascisti di cavalcare lo sviluppo di una “offensiva a difesa del lavoratore italiano” che nient’altro è se non una pratica razzista e xenofoba per occupare uno spazio e quindi un ruolo. Di argomentare teoricamente i contenuti di questa “offensiva” i fascisti non si preoccupano, giustamente, molto. Essi ripropongono, di fatto, le fantasie socio-economiche presenti nel “programma sansepolcrista” del ’19 e nella “repubblica sociale” del ’43, naturalmente senza preoccuparsi dei particolari (cioè dei risultati); contemporaneamente proponendo e recuperando, da una parte, i brigatisti neri della “Ettore Muti”, i franchi tiratori di Pavolini e i vari membri di reparti speciali delle polizie fasciste delle varie “Ville Tristi” come esempi paradigmatici per i giovani italiani di oggi e, dall’altra, la rigatteria culturale prodotta da Marinetti e da Evola come elevato bagaglio teorico da essi possedute: tipico esempio di queste realtà di “fascismo sociale del III millennio” operanti sul territorio, è “Casapound”, la quale, non va dimenticato, a Firenze ha pure detto qualcosa di originalmente suocon l’assassinio di due lavoratori senegalesi e il ferimento di altri tre compiuto da un suo dirigente pistoiese. Per i fascisti, lasciare vuoti di riferimenti storici e di contenuti le menzogne pseudo rivoluzionarie dirette, a volte con qualche successo, alle soggettività piccolo borghesi, sottoproletarie ma anche operaie, colpite dalla crisi, non è un problema. Quello che è per loro vitale è convincere il “capitale finanziario” che in questo difficile contesto di grave crisi capitalistica, i fascisti possono essere, almeno in parte, una componente alleata per la sua gestione, dove la variante strategica più elementare può essere quella di trasformare, in quei settori già intercettati e in via di intercettazione, la paura per il futuro in necessità di sicurezza, mentre il percorso operativo, contando come da sempre sull’appoggio e sulle informazioni delle forze istituzionali di repressione, potrebbe inizialmente sostanziarsi in vere e proprie “ronde”, la legge d’altronde c’è già, in funzione anti-immigrante e in truppa di contrasto-provocazione alle iniziative di classe.

 

Diceva il Che che “il marxismo è una delle cose realmente straordinarie che ha prodotto l’umanità, come teoria”: in effetto, per capire il ruolo che il fascismo ha avuto e continua ad avere, l’analisi di classe, l’applicazione del metodo marxista restano per noi appartenenti alle classi subalterne strumenti fondamentali Oggi, ancor più di ieri, la teoria e la prassi si configurano come assolutamente indivisibili.

 

2. Una proposta per dar vita a una Organizzazione comunista rivoluzionaria da costruire nella pratica della lotta di classe.

 

2.1. Presupposti, condizioni iniziali e al contorno che vincolano e polarizzano la nascita dell’Organizzazione.

 

Non avrebbe senso considerare i contenuti della nostra proposta, sviluppati indicativamente a seguito, come un tutto completo e pronto alla applicazione. Il loro ruolo è quello di innescare una riflessione sulla teoria e sulla tattica (organizzazione) comuniste adeguate alla crisi in atto -patita e percepita ora, a differenza del passato, da percentuali visibili di classi subalterne- per dare il via alla costruzione di un coerente percorso politico e organizzativo che abbia come obiettivo strategico la realizzazione di una società socialista.

Completezza, applicabilità e creatività saranno man mano implementate sul teatro concreto dello scontro di classe, se questa proposta “decollerà”. Il suo avvio resta comunque funzione di due presupposti,uno relativo al periodo in atto e l’altro relativo al passato. Presupposti che riteniamo oggi esistenti e che sono:

 

la attualità del superamento del capitalismo, nella specificità della fase presente, globalizzata e imperialistica, anche sulla base oggettiva dell’enorme sviluppo delle forze produttive;attualità e possibilitànon ipotetiche ma assolute,tantonellateoria quanto nella pratica;

 

la comprensione critica degli errori legati alla 1ª esperienza socialista; errori tratteggiati grosso modo, nei loro aspetti fondamentali, nel punto 1. i quali forniscono i necessari legami qualitativi con quel passato.

 

Ci sembra però comunque necessario sottolineare ancora una volta, seppure sotto una angolatura distinta dalla precedente, che le condizionipolitiche, iniziali e al contorno, nelle quali questa nostra proposta viene lanciata, risultano polarizzate da tre dati di fatto che:

 

a. hanno visto e vedono il fallimento dei comunisti nei tentativi concreti da loro fatti per la ricostruzione di una propria organizzazione politica; tentativi più o meno limitati alla celebrazione di riunioni nazionali che -presiedute da soggettività ritenute dirigenti di un movimento comunista che non esiste- non riescono naturalmente ad andare al di là del semplice momento assembleare;

 

b. hanno visto e vedono tutte le formazioni comuniste ossessivamente preoccupate tanto per i periodici appuntamenti elettorali, che sempre le vedranno subordinate e perdenti, quanto per la salvaguardia dei loro piccoli interessi politici, anche funzionali alla perenne riproposizione delle proprie dirigenze;

 

c. hanno visto e vedono il nome di comunista essere semplicemente associato -nonostante le molteplici nascite e presenze di formazioni che se ne richiamano- al nome in sé, senza un qualunque riscontro politico, o solo come riferimento ideale, oppure solo come vettore di dibattito intellettuale ancorché di elevato livello analitico e di interessante elaborazione teorica; tutte queste formazioni risultano accomunate da enormi limiti, tanto nella capacità pratica quanto nella volontà politica, che oggettivamente le impediscono di dar vita a un percorso di necessario confronto critico collettivo che dovrebbe rimettere al centro la costruzione di una organizzazione comunista rivoluzionaria nella quale il marxismo e il leninismo rappresentano lo strumento collettivo e creativo per dirigere lo scontro di classe. Il risultato ultimo si concretizza nella impossibilità strutturale che una o più di esse possano erigersi a riferimento politico unificatore.

 

2.2. Una teoria e una struttura adeguate per implementare il superamento delle relazioni di produzione capitaliste.

 

Sulla base dei due presupposti generali e dei tre dati di fatto sintetizzati nel punto 2.1., si individuano due strumenti primarî di cui dotarsi: il primo, una adeguata teoria rivoluzionaria(una “bussola”); il secondo, una struttura organizzativa di pronta reazione politica (la “Cellula”) che converta i punti fondanti della elaborazione in prassi, realizzando tra esse una ciclicità sinergica. Teoria e struttura permetteranno alla Organizzazione la comprensione -dalla scala territoriale a quella internazionale- dello scontro di classe e l’attivo inserimento, in esso medesimo, dei/delle suoi militanti.

Per fissare le indicazioni generali su cosa intendiamo per teoria rivoluzionaria e struttura organizzativa, separeremo in modo meccanico questi due “strumenti primarî” che sono, invece, assolutamente interdipendenti.

 

2.2.1. La “bussola” come fattore unico per l’orientamento e la navigazione rivoluzionarie.

 

La “bussola” viene costruita dalla Organizzazione attraverso i suoi/sue militanti come un tutto unico, generato dall’amalgama dello studio critico, collettivo e creativo del marxismo e del leninismo e della pratica di classe.

 

Che la incapacità di orientamento politico e la conseguente impossibilità di perseguirne gli obiettivi, a livello di formazioni sociali, o la impossibilità di comunicare e interagire nel contesto nel quale si vive, a livello di soggettività individuale, conducano il soggetto che si trova in tali stati alla emarginazione e alla conseguente disgregazione, è elementarmente vero. E questa è esattamente la situazione, di incapacità, nella quale si trova la potenziale avanguardia rivoluzionaria delle classi subalterne, cioè quelli e quelle che vorrebbero reagire in modo organizzato ed efficace alla barbarie capitalista che ci sta soffocando.

 

Il marxismo e il leninismo rappresentano, appunto, per la potenziale avanguardia il fattore necessario tanto per eliminare l’attuale incapacità di orientamento quanto per permettere la successiva scansione atta al perseguimento degli obiettivi politici della classe.

 

Vediamo sinteticamente perché: il marxismo e il leninismo analizzano le dinamiche politiche delle formazioni sociali secondo la divisione di classe in esse presente, ovvero secondo il modo di come si produce e si distribuisce la ricchezza socialmente realizzata; valutano gli avvenimenti ponendosi direttamente e apertamente nei punti di vista dei diversi interessi di classe e rendendo così comprensibili le concrete cause politiche soggiacenti alle apparenze e alle forme con le quali la borghesia agisce; smascherano come i rapporti connessi con i diritti di proprietà, con la distinzione tra proprietari e nullatenenti, non siano relegabili alla sfera sociologica, come la borghesia riesce a imporre, ma siano direttamente interni alla teoria economica come tale, ovvero dipendano dalle concrete relazioni di produzione esistenti; dimostrano come queste siano responsabili della attuale criminale distribuzione della ricchezza prodotta socialmente e distribuita in poche mani; indicano come oggettivamente queste relazioni di produzione possano venire rovesciate solo dalla formazione sociale che tale ricchezza produce.

 

Altre letture, come si sa, tutte negazioniste del concetto di classe ed essenzialmente elaborate dalla borghesia per la manipolazione della coscienza delle masse popolari, risultano basate sulla religione, sulla razza, sulla nazione, sul corporativismo o su combinazioni di esse; ma anche, ultimamente -e questo è il prodotto diretto di Antonio Negri coadiuvato da soggettività e da segmenti di “movimento” ora sicuri estimatori “grillini”- sul non meglio definito concetto di “moltitudine”, completato dalle forme vuote conosciute come “assemblearismo”, “orizzontalità” e così via. Nessuna di queste letture ha dato, naturalmente, alcun risultato parziale per coloro che vivono vendendo la loro forza lavoro; la crisi attuale lo conferma e continuerà con maggior pesantezza a confermarlo.

 

L’unica “bussola” scientificamente progettata per la emancipazione delle classi subalterne coincide con il marxismo e con il leninismo: attraverso essi, come prima tratteggiato, la realtà sociale viene conosciuta nella sua totalità con gli occhi della classe operaia, riconosciuta oggettiva forza motrice del superamento del modo di produzione capitalistico.

Si tratta quindi, continuando la metafora della bussola, di controllarne ora la “declinazione” in ambiente di capitale finanziario globalizzato. Questo significa, come primo passo, la riappropriazione da parte delle avanguardie comuniste della teoria e della prassi marxiste e leniniste. In particolare pensiamo sia matura, sul fronte economico, la realizzazione di un contributo scientifico collettivo che raccolga e implementi la critica del Che, da lui esplicitata con grande coraggio civile e che aveva come obiettivo quello di suscitare un bilancio sul significato o meno di economia politica socialista. Contributo certo basato sulla analisi dialettica delle copiose esperienze del passato ma che va soprattutto pensato per gli sviluppi futuri.

 

2.2.2. La “Cellula” come struttura operativa e fattore sinergico alla liberazione della soggettività rivoluzionaria: aspetti strategici e tattici.

 

Le forme di organizzazione partitiche riflettono le necessità delle classi sociali che le costruiscono assieme alla contemporanea funzionalità alla fase di scontro. La cancellazione pressoché totale della memoria storica e della coscienza di classe, oggi operanti, indica che la struttura operativa politica adeguata per l’utilizzazione della “bussola” del marxismo e del leninismo coincide con la nascita della Cellula Comunista Rivoluzionaria (CCR), realtà di lotta a struttura cellulare da inserire ovepossibile. La Cellula non è una soluzione nuova -come non lo è iniziare la costruzione di una casa dalle fondamenta e non dal tetto- però, ora, a differenza del passato, il suo inserimento avviene in un ambiente politico altamente degradato e dunque essa assume nuove regole e nuove funzioni. Per questo, la “tessitura” della struttura cellulare è pensata secondo il metodo della minima resistenza derivato da una analisi differenziata dei fenomeni antagonistici.

 

Come si sa, oltre alla lotta di classe, esistono svariati campi polarizzati da contraddizioni non risolubili, tra i quali: quelli dell’economia capitalista del “libero” mercato o del capitalismo monopolista; quelli dei conflitti armati nelle loro varie declinazioni. In questo ultimo campo è interessante confrontare le analogie antagoniste esistenti tra gli iniziali rapporti di forza sotto i qualisi è sviluppato il radicamento delle avanguardie di classe delle masse popolari e quelli sotto i quali si inserisce la proposta politica della CCR. L’analogia è evidente. La fase iniziale, infatti, è per entrambe caratterizzata da: autonomia tattica, chiarezza politica e rapida decisionalità. Condizioni che non possono essere assicurate da una direzione centralizzata la quale non è oggettivamente in grado di intervenire né tempestivamente né materialmente. Questo confronto è: stimolante perché dà una prova della adeguatezza (unica possibile, diremmo) della CCR alla situazione presente; efficace perché le condizioni di entrambe sono condizioni limite, del tutto simili nella forma, il che rende chiara la comprensione del fenomeno e la conseguente possibilità di analogia. Ci limiteremo dunque a una “traslitterazione” della analogia che per la CCR si muove unicamente e assolutamente nella dimensione politica:

 

– la CCR sorge in quanto, di fatto, risultano cancellate tutte le possibilità convenzionali di inserimento di un movimento comunista organizzato nella lotta politica;

 

– la CCR è l’avamposto -numericamente assai inferiore di coloro che rappresenta come classe- nel quale è riposta la volontà di vittoria per l’emancipazione delle masse popolari;

 

– la CCR lotta in un ambiente politico-economico controllato dall’avversario, ragione per la quale le sue possibilità di radicamento si trovano nelle sue capacità di dinamismo, iniziativa, creatività e reazione istantanea a fronte di nuove forme di lotta politica utilizzate dall’avversario;

 

– la CCR adotta opportuni metodi di lotta politica in grado di affrontare un avversario numericamente superiore e molto più dotato di risorse materiali;

– la CCR persegue costantemente i processi di replicazione i quali produrranno salti qualitativi culminanti nella costituzione del partito.

 

Queste argomentazioni dovrebbero giustificare il perché riprendere proprio con questo tipo di struttura, la quale, nelle nostre valutazioni, si andrebbe sviluppando politicamente secondo tempiragionevolmente “brevi” potendo così passare a forme superiori di organizzazione. Nell’arco di questi tempi “brevi”, dove non è difficile poter indurre i rapporti di forza, anche la sola ipotesi di partecipare a competizioni elettorali “borghesi” non presenta né credibilità né senso.

Questa schematica affermazione rimanda al necessario chiarimento (da sviluppare in seguito scientificamente e in maniera esaustiva) sul fondamentale rapporto che i comunisti devono tenere nei confronti dei meccanismi apparentemente democratici della borghesia e delle istituzioni che da tali meccanismi derivano (elezioni, parlamento, eccetera).

Che nel 1945 il problema del suffragio universale, dopo più di venti anni di dittatura terroristica aperta, fosse una conquista, risultava a tutti evidente. La dirigenza del PCI ne fece però un meccanico dogma che, favorendo posizioni politiche confuse e opportuniste, avrebbe poi portato nel 1977 alla nefasta e politicamente concreta dichiarazione dell’allora suo segretario Enrico Berlinguer, che, nel discorso tenuto in occasione della celebrazione del 60° anniversario della Rivoluzione d’ottobre, assumeva la democrazia formale come “valore storicamente universale“. Tale condizionamento ha limitato e disarmato il movimento comunista rivoluzionario che deve operare secondo obiettivi di democrazia reale -il cui obiettivo risiede nella emancipazione economica e politica della classe lavoratrice- che non ha relazioni di parentela con le regole “democratiche” della borghesia. È sempre opportuno, per le decisioni strategiche, fermo restando la diversità delle fasi, non fermarsi alla forma ma arrivare sostanza (di classe):

Soltanto dei mascalzoni o dei semplicioni possono credere che il proletariato debba prima conquistare la maggioranza alle elezioni effettuate sotto il giogo delta borghesia, sotto il giogo della schiavitù salariata, e poi conquistare il potere. È il colmo della stupidità o dell’ipocrisia; ciò vuol dire sostituire alla lotta di classe e alla rivoluzione le elezioni fatte sotto il vecchio regime, sotto il vecchio potere” (tratto da Saluto di Lenin ai comunisti italiani, francesi e tedeschi, Opere, Ed. Riuniti, vol. XXX, pagg. 40-49).

I comunisti, insomma, devono vedere nelle regole “democratiche ” borghesi uno strumento da usare per far avanzare la lotta rivoluzionaria delle masse popolari per il superamento del sistema capitalistico.

Argomentato così, in modo sintetico, l’iniziale rapporto della CCR con i meccanismi della democrazia formale, indichiamo a seguito gli aspetti caratterizzanti e fondanti la specificità della CCR medesima:

 

1) La CCR deve essere l’espressione unica dei compagni che la compongono, deve operare come un unico collettivo, in cui i compagni elaborano e producono lavoro politico collegialmente, all’interno dell’analisi e del metodo marxista e leninista.

 

2) La CCR deve svolgere la funzione di formazione dei quadri militanti, praticare il metodo della autoformazione, della partecipazione collegiale dei quadri militanti all’elaborazione dell’analisi teorica e alla sua conseguente organizzazione pratica, deve essere il perno principale della formazione e della maturazione dei compagni. La CCR deve essere percepita e riconosciuta dai militanti come luogo di crescita culturale e politica che consenta ad essi il salto di qualità necessario per avvicinarsi al “Professionista Rivoluzionario”.

 

3) La CCR deve darsi una propria organizzazione che la metta nella condizione di poter essere parte attiva all’interno delle contraddizioni e delle lotte che si sviluppano sui territori e nei luoghi di lavoro, deve operare affinché l’egemonia della teoria rivoluzionaria primeggi nei confronti delle ancor giuste rivendicazioni meramente sindacali o sociali;

 

4) La CCR deve svolgere, ove possibile, il ruolo di agitazione sociale e deve essere riconosciuta dalla classe proletaria come unico riferimento politico rivoluzionario, per la funzione svolta e per la coerenza che mostra nello svolgere il suo lavoro politico.

 

5) La CCR deve sviluppare in modo sistematico, considerando la fase di capitale finanziario globalizzato nella quale opera, l’analisi e la comprensione dello stato dell’arte della lotta di classe a livello internazionale. Il fronte dello scontro non ha soluzione di continuità e la pratica concreta dell’internazionalismo proletario diviene sia un potente strumento di crescita politica soggettiva e collettiva, sia un ponte di solidarietà di classe costruito per essere percorribile nei due sensi.

 

6) I compagni militanti che aderiscono alla CCR devono dedicare il loro tempo alla causa rivoluzionaria, condurre una vita politica, lavorativa e sociale in piena coerenza con la impegnativa scelta decisa con la loro adesione. In questo preciso contesto, rischiando anche la risibilità, va riaffermato che i comunisti devono essere portatori di valore morale, di coerenza tanto nella lotta politica quanto nella vita e di coraggio. Esattamente nello stesso modo dei compagni che ci hanno preceduto e che hanno affrontato i rischi che il momento storico riservava loro: le compagne e i compagni partigiani, le compagne e i compagni lavoratori, i compagni braccianti. Tutto ciò li ha portati a essere riconosciuti come riferimento politico unico delle masse proletarie.

 

7) La CCR deve usare come metodo di discussione e decisione il “Centralismo Democratico”, metodo che viene esteso anche al dibattito tra le varie CCR.

 

8) Le replicazioni prodotte dalle CCR individueranno forme di comunicazione che le mettano in grado, come struttura, di condividere lo sviluppo delle lotte e dell’analisi che andranno a prodursi.

 

9) La CCR dovrà individuare, a seconda della sua formazione e organizzazione, la forma necessaria di finanziamento.

 

10) Le CCR dovranno costituire, in tempi brevi, un sistema di solidarietà economica e legale a salvaguardia dei compagni militanti.

 

11) Le CCR dovranno darsi, quando collegialmente verrà ritenuto necessario, degli strumenti di

coordinamento, territoriale, regionale e nazionale.

 

Questi 11 punti restano naturalmente indicativi ma sono fermi nel voler trasmettere la volontà e la convinzione del tentativo di aggregazione di soggettività proletarie potenzialmente rivoluzionarie. Negli 11 punti ne compare uno, il punto 5., che crediamo necessario -similmente a quanto prima fatto per chiarire il portato rivoluzionario concreto dei termini “marxismo” e “leninismo”- precisare. Oggi per “pratica concreta dell’internazionalismo proletario”, intendiamo: le conoscenze reali, materializzate attraverso scambi tra militanti comunisti, dei rispettivi scenari di lotta; i momenti comuni di studio e di solidarietà tra militanti comunisti che intercettano le rispettive strategie di classe tanto proprie quanto dell’avversario; la definizione di progetti comuni per la nascita di strutture culturali e di propaganda, ma anche legali, rispettivamente per la implementazione viva del materialismo storico e del materialismo dialettico e per la difesa dei militanti comunisti. La priorità degli scambi tra militanti andrà alle situazioni che vedono il movimento comunista “in prima linea” nello scontro di classe, costruendosi contemporaneamente le condizioni -possibilità di comunicare e di movimento- per la realizzazione della pratica internazionalista così intesa.

 

3.Non abbiamo che poco tempo.

 

In questo Appello-Proposta abbiamo argomentato criticamente:

 

a) su come il Movimento Comunista, all’inizio del secolo XX, abbia “postulato” la attualità dellarivoluzione proletaria e come su tale convinzione abbia costruito, con estremo rigore e strenua lotta, la sua struttura organizzativa la quale gli ha permesso la vittoria attraverso la Rivoluzione Russa dell’Ottobre;

 

b) su come quella vittoria generata dalla conseguente applicazione del “postulato” abbia marcato un metodo a livello mondiale e come al sorgere delle successive contraddizioni interne al Movimento Comunista (usiamo questa forma per semplificare il tutto), una parte di esso, tra gli anni ’60 e la metà degli anni ’70 circa, abbia “postulato” la attualità della rivoluzione proletaria mondiale nella accezione della guerra popolare di lunga durata.

 

Per avanzare la convinzione di:

 

c) come oggi:

 

– da una parte considerando gli insegnamenti che vengono dalla passata sconfitta strategica della 1ª esperienza socialista;

 

– dall’altra essendo immersi nella presente enorme crisi del capitale finanziario globalizzato anche e però caratterizzato dalla esistenza di una quasi illimitata potenza delle forze produttive;

 

si riapra la attualità, sotto precise condizioni soggettive e organizzative, del superamento delle relazioni di produzione capitalistiche.

 

Non abbiamo che poco tempo per organizzarci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALLEGATI

 

 

 

 

 

I “21 PUNTI DELLA III INTERNAZIONALE” (1920)

 

 

I “10 PUNTI DEL CONGRESSO DI LIVORNO” (1921)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I “21 PUNTI DELLA III INTERNAZIONALE”

1. – La propaganda e l’agitazione quotidiana devono avere un carattere effettivamente comunista e conformarsi al programma e alle decisioni della III Internazionale. Non giova parlare della dittatura del proletariato come d’una formula appresa e corrente, ma far nascere dalla vita quotidiana la necessità di questa dittatura. La stampa, le riunioni pubbliche dovranno bollare sistematicamente la borghesia e i riformisti di ogni gradazione.

2. – I riformisti e i centristi debbono essere allontanati da tutti i posti di responsabilità.

3. – La lotta di classe comporta generalmente un periodo di guerra civile. I comunisti non possono confidare nella legalità borghese e debbono creare, parallelamente all’organizzazione legale, una organizzazione clandestina. La concomitanza delle due azioni è indispensabile dovunque lo stato d’assedio o le leggi d’eccezione riducono le possibilità legali.

4. Un’agitazione sistematica aperta e illegale deve essere svolta fra le truppe.

5. – Un’agitazione razionale è indispensabile nelle campagne. Infatti la classe operaia non può vincere se non è sostenuta almeno da una parie dei lavoratori rurali.

6. – Ogni partito comunista deve denunciare il social patriottismo (il socialismo che accetta la tesi della difesa nazionale in regime capitalista) e il social pacifismo (quello che ammette la possibilità, in regime capitalista, di sopprimere la guerra con l’arbitrato).

7. – Ogni partito comunista deve rompere con la politica riformista e centrista, altrimenti la III Internazionale somiglierebbe troppo alla seconda.

8 – Ogni partito comunista deve denunciare l’imperialismo coloniale e sostenere i movimenti di emancipazione delle colonie, mantenere fra le truppe metropolitane una agitazione continua contro ogni oppressione dei popoli coloniali.

9. – Ogni partito comunista dovrà svolgere una propaganda sistematica nel seno dei sindacati e delle cooperative: vi saranno formati nuclei comunisti, che saranno subordinati ai partito.

10. – Ogni partito comunista dovrà combattere l’Internazionale di Amsterdam (Trade-unions, C.G.T. francese, Federazione americana del Lavoro, C.G.L. tedesca, ecc.) e concorrere a creare l’Internazionale rossa dei sindacati.

11. – Ogni partito comunista dovrà rivedere la composizione del suo gruppo parlamentare e subordinarne il comportamento alle decisioni del Comitato Centrale.

12. – I partiti saranno centralizzati, stretti da una disciplina di ferro e daranno larghi poteri ai loro organismi centrali.

13. – Essi procederanno a una epurazione periodica, per eliminare gli elementi piccolo-borghesi.

14. – Essi sosterranno senza riserve le repubbliche sovietiche nelle loro lotte con la controrivoluzione. Essi predicheranno senza stancarsi il rifiuto dei lavoratori di trasportare le munizioni destinate ai nemici di queste repubbliche e proseguiranno la propaganda fra le truppe mandate contro di esse.

15. – Essi correggeranno i loro programmi, e ne elaboreranno dei nuovi, adattati alle condizioni speciali del loro paese, e concepiti nello spirito dell’Internazionale Comunista.

16. – Tutte le decisioni del Congresso dell’Internazionale Comunista, così come quelle del Comitato Esecutivo, sono obbligatorie per i partiti affiliati. Ma l’Internazionale e il suo Esecutivo terranno conto delle particolari condizioni di lotta nei differenti paesi e non adotteranno risoluzioni generali obbligatorie che nelle questioni dove sono possibili.

17. – I partiti aderenti all’Internazionale Comunista si denomineranno: Partito Comunista di …… (Sezione della III Internazionale Comunista).

18.Le organizzazioni dirigenti della stampa di ogni partito pubblicheranno tutti i documenti ufficiali importanti del Comitato Esecutivo.

19. – I partiti già aderenti all’Internazionale e quelli che aspirano all’adesione dovranno, entro quattro mesi, convocare un congresso straordinario, per pronunciarsi sulle condizioni.

20. – I partiti che vorranno aderire alla III Internazionale, e che non hanno ancora modificato radicalmente la loro antica tattica, dovranno curare che gli organismi centrali siano composti, per due terzi, di mèmbri che. prima del II Congresso si siano già pronunciati per la III Internazionale. Si potranno fare eccezioni, con l’approvazione del Comitato Esecutivo.

21. – Gli aderenti di un partito, che respingeranno le condizioni e le tesi stabilite dall’Internazionale Comunista, dovranno essere esclusi.

Condizioni per l’ammissione dei partiti nazionali, stabilite
dal III Congresso dell’Internazionale Comunista (1920)

I “10 PUNTI DEL CONGRESSO DI LIVORNO” (1921)

1. – Nell’attuale regime sociale capitalista si sviluppa un sempre crescente contrasto fra le forze produttive ed i rapporti di produzione, dando origine all’antitesi di interessi ed alla lotta di classe fra il proletariato e la borghesia dominante.

2. – Gli attuali rapporti di produzione sono protetti e difesi dal potere dello Stato borghese che. fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l’organo della difesa degli interessi della classe capitalistica.

3. – II proletariato non può infrangere ne modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione da cui deriva il suo sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese.

4. – L’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il partito politico di classe.

Il Partito comunista riunendo in sé la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici, volgendoli dalle lotte per gli interessi di gruppi e per risultati contingenti alla lotta per l’emancipazione rivoluzionaria del proletariato.

Il Partito ha il compito di diffondere nelle masse la coscienza rivoluzionaria, di organizzare i mezzi materiali di azione e di dirigere, nello svolgimento della lotta, il proletariato.

5. – La guerra mondiale, causata dalle intime, insanabili contraddizioni del sistema capitalistico che produssero l’imperialismo moderno, ha aperto la crisi di disgregazione del capitalismo in cui la lotta di classe non può che risolversi in conflitto armato tra le masse lavoratrici ed il potere degli Stati borghesi.

6. – Dopo l’abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell’apparato di stato borghese e con l’instaurazione della propria dittatura, ossia basando le rappresentanze dello Stato sulla classe produttiva ed escludendo da ogni diritto politico la classe borghese.

7. – La forma di rappresentanza politica nello Stato proletario è il sistema dei Consigli dei lavoratori (operai e contadini), già in atto nella Rivoluzione proletaria mondiale e prima stabile realizzazione della dittatura proletaria.

8. – La necessaria difesa dello Stato proletario contro tutti i tentativi controrivoluzionari può essere assicurata solo col togliere alla borghesia ed ai partiti avversi alla dittatura proletaria ogni mezzo di agitazione e di propaganda politica e con la organizzazione armata del proletariato per respingere gli attacchi interni ed esterni.

9. – Solo lo Stato proletario potrà sistematicamente attuare tutte quelle successive misure di intervento nei rapporti della economia sociale con le quali si effettuerà la sostituzione del sistema capitalistico con la gestione collettiva della produzione e della distribuzione.

10. – Per effetto di questa trasformazione economica e delle conseguenti trasformazioni di tutta l’attività della vita sociale, eliminata la divisione della società in classi, andrà anche eliminandosi la necessità dello Stato politico, il cui ingranaggio si ridurrà progressivamente a quello della razionale amministrazione delle attività umane.

Approvato dal I Congresso del Partito Comunista d’Italia (1921)

CONTRO OGNI REVISIONISMO! SOLIDARIETA’ AD ALESSANDRA KERSEVAN

Nei gravissimi fatti di aggressione fisica e di terrorismo politico che i fascisti hanno ormai preso a realizzare con incontrastata continuità, si annovera l’ennesima provocazione neonazista applicata ai danni dell’ANPI e della storica Aleksandra Kersevan per una iniziativa da loro sviluppata a Giavera del Montello (Treviso) per dimostrare la falsità del revisionismo storico che vorrebbe utilizzare le cosiddette “foibe” come merce antipopolare e antiresistenziale. Naturalmente questa offensiva della destra eversiva non è casuale e ancora una volta occorre leggerla attraverso una analisi di classe nel contesto della specificità della soluzione che una parte del capitalismo italiano vorrebbe dare alla crisi sistemica che lo attanaglia. Con estrema convinzione inviamo la nostra totale solidarietà all’ANPI e ad Aleksandra Kersevan.

Sebbene possa ormai sembrare ridicolo appellarsi alla Costituzione italiana, resta un fatto come essa preveda esplicitamente la proibizione del risorgere di organizzazioni fasciste, sotto qualunque forma, in relazione alla tragedia storica -questa sì reale a differenza di quella delle cosiddette “foibe”- che il fascismo ha gettato sulle spalle delle masse popolari italiane. Questo mandato va realizzato. Sebbene la Carta Costituzionale non preveda direttamente il diritto di resistenza, il suo “spirito” ha comunque polarizzato il derivato Ordinamento giuridico che nel suo articolo 51 esclude la punibilità dei fatti compiuti nello “esercizio o adempimento di un dovere” legati al mandato Costituzionale stesso. L’improrogabile lavoro politico territoriale di memoria e di denuncia storica del ruolo passato e soprattutto attuale del fascismo può, insieme all’unione Antifascista, essere in grado di assolvere a questa elementare necessità delle classi lavoratrici.

 


dalla Toscana: Brigate di Solidarietà e per la Pace – Circolo 25 aprile

 

SOLIDARIETÀ AI PALESTINESI DEL CAMPO PROFUGHI DI YARMOUK!

SOLIDARIETÀ AI PALESTINESI DEL CAMPO PROFUGHI DI YARMOUK!

Nel settembre del 2010 nel nostro “Viaggio della Memoria, della Solidarietà e della Resistenza” fummo anche ospiti dei compagni palestinesi del Campo di Yarmouk. Con loro, nell’evidente rapporto di scala, discutemmo di temi generali e specifici: tra questi ultimi, il nostro impegno a implementare una battaglia politica e legale per la liberazione del Segretario Generale del FPLP Ahmad Saadat. L’impressione che il contatto con i compagni di Yarmouk ci ha lasciato è quello di aver attraversato un ponte, costruito sulla solidarietà internazionalista e sulla prospettiva socialista, che unisce un glorioso passato di lotta con il futuro scontro di classe che vedrà oggettivamente crescere il coinvolgimento delle le masse lavoratrici mondiali. L’attacco a Yarmouk è un importante  passo del nemico, tra i tanti, per impedire questo percorso di nuova crescita. È un passo inserito nella lucida strategia di rapina imperialista che tenta una nuova ripartizione del mondo e che vede nella cancellazione dell’attuale Stato siriano una necessaria condizione.

DICELA COMPAGNA LEILAKHALED in una intervista al portale al-Bawabba riportata dal sito al Manar: “Non può essere permesso chela Siriasia distrutta. Le distinte realtà Palestinesi hanno assicurato, dall’inizio degli eventi siriani, che il diritto del popolo Palestinese ad acquisire la sua libertà e determinare il suo destino deve avvenire in un contesto politico nazionale. Ma, in contro partita, non si può in alcun caso sostenere il processo di distruzione e di disintegrazione della Siria ricercata dai gruppi armati sostenuti da parti straniere”. Essa ha poi ricordato come “la Siriaabbia offerto ai rifugiati Palestinesi tutti i diritti sociali e civili, con eccezione di quello elettorale; abbia sostenuto il diritto al ritorno dei Palestinesi; abbia garantito il sostegno ai movimenti di Resistenza della regione, soprattutto palestinesi.La Siria” -ha concluso Leila Khaled- “è vittima di un violento attacco a tutti i livelli per questo suo ruolo e per questo i gruppi armati legati al Qatar, all’Arabia Saudita, agli Stati Uniti e alle forze Occidentali hanno come obiettivo la distruzione della Siria”.

Non capire questo crediamo sia un gravissimo errore e un grandissimo limite: essi vanno rapidamente sanati. E non perché con il “sanarli” si apra per noi uno scenario “vittorioso”, ma perché ciò risulta un percorso imprescindibile per l’inizio di una lunga marcia di organizzazione e chiarezza politiche.   Occorre insomma, da subito, i tempi sono maturi, una contemporanea assunzione di solidarietà militante internazionalista e di coerente sviluppo della lotta di classe nel proprio paese. È questo l’aiuto possibile più importante per i compagni palestinesi che i firmatari si impegnano a contribuire a costruire.

 

COBAS – PI, Pisa.

Collettivo 25 Aprile, Pisa

Brigate di Solidarietà e perla Pace

Coordinamento Guevarista Internazionalista

M.R.O.-Uruguay

F.A.R.- Argentina

11 DICIEMBRE 1967 – 11 DICIEMBRE 2012 ¡QUÉ VIVA EL FPLP!

¡CAMARADAS, COMPAÑERAS, COMPAÑEROS!

 

La decisión de producir un homenaje en ocasión del 45 aniversario del FPLP, es la asunción del apoyo internacionalista que conforma nuestra Coordinadora Guevarista. La lucha del FPLP, organización marxista y leninista que combate para la emancipación total del pueblo palestino, es también nuestra lucha cuyo objetivos coinciden en la construcción de una sociedad socialista . En este momento las y los camaradas del FPLP representan la punta de lanza que en el viejo continente se enfrenta al imperialismo constituyendo el primer escalón de detención a la necesidad del capital financiero globalizado de un nuevo reparto del mundo que haría regresar a las masas trabajadoras a condiciones equivalentes a la esclavitud. El heroísmo y la firmeza política de la militancia del FPLP tiene que ser un ejemplo para nosotros, así como su concreto apoyo internacionalista: acordemonos, para mencionar a unos, de Patrico Argüello Ryan, Juan José Quesada, Pedro Arauz Palacios, todos nacido en tierra americana.

Nuestras asunciones y nuestras condivisiones nos permiten de decir que Palestina tiene que ser Única y Socialista.

¡VIVA EL CAMARADA AHMAD SAADAT; VIVA LOS PRESOS POLÍTICOS DEL FPLP Y DEL PUEBLO PALESTINO ILEGALMENTE DETENIDOS POR EL SIONISMO!

11 Diciembre 2012 –

COORDINADORA GUEVARISTA